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mercoledì 20 marzo 2013

Palermo: gli splendori e le miserie l'eroismo e la viltà



Antonio Ingroia, Palermo: gli splendori e le miserie l'eroismo e la viltà, Milano, Melampo Editore, 2012, 166 pp., ISBN 978-88-89533-52-9.



Quando si parla di Antonio Ingroia non possiamo scindere il suo percorso di vita civile da quello professionale. Quest’ultimo è stato segnato dalla conoscenza diretta di due eminenti uomini, conterranei ed al servizio dello Stato, che hanno forgiato le coscienze della Sicilia, valicando i confini della Nazione: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Paolo Borsellino è stato maestro e mentore della formazione professionale di Antonio Ingroia e ha reso ancora più consapevoli e tenaci i principi che il giudice aveva assimilato, sin da giovane, nel suo percorso adolescenziale: la ricerca della verità, dapprima alimentata con letture di approfondimento sul fenomeno mafioso siciliano – da Sciascia ad Arlacchi – ed in seguito arricchita dalla frequentazione del centro studi Peppino Impastato, ove forte era l’evidenza dell’Antimafia.

La continuità con il suo modo di essere è evidenziata da alcune azioni dei suoi maestri professionali, una in particolare: quando Paolo Borsellino – in occasione della confessione del pentito di mafia Calcara, venuto a conoscenza che alcuni dei suoi giovani sostituti erano entrati nel mirino delle cosche mafiose – decide di assegnare in dotazione al più esposto giovane Ingroia, allora trentenne, una delle sue auto blindate e, da oculato osservatore, lo stesso giudice confessa a  Ingroia di ritenersi quasi fortunato per avere vissuto più anni di libertà rispetto a lui, che sta invece iniziando a vivere la vita blindata precocemente.

Da quel passaggio la vita di Ingroia si è tracciata e concretizzandosi in una costante lotta contro il crimine organizzato.

Definito il “pupillo di Paolo Borsellino”, è sempre in prima linea ad istruire processi a personaggi noti e altri definiti “colletti bianchi”: dal sequestro De Mauro, al caso Rostagno, ai processi Contrada e Dell’Utri ed in ultimo quello sulla Trattativa Stato-Mafia; processi che lo hanno spesso reso oggetto di critiche particolari e lo hanno sottoposto ad una continua esposizione pro e contro le azioni intraprese.

La sua indole è, di certo, segnata dagli avvenimenti criminosi, quali la strage in cui sono stati trucidati Paolo Borsellino e i valorosi servitori dello Stato che tentavano di proteggerlo. Sicuramente da allora qualcosa è cambiato.

Oggi nel mezzo del cammino della sua vita, molto travagliata e vissuta nell’interesse della società, è stato costretto a eliminare buona parte del suo privato e di quelle cose che molte persone ritengono normali.

Di recente, inoltre, ha deciso di intraprendere un percorso professionale e di vita apparentemente diverso. L’occasione è stata colta da molti per muovergli critiche, ed attribuire a tale gesto valore di resa. Chiaramente ha scelto quello che un uomo consapevole e coerente decide di fare nella vita: approfondire e continuare la sua azione di servizio verso lo Stato.

Ha coinvolto negli anni tanta gente, movimenti e rappresentanti della società civile, e ha  molto sperato di trascinarli in quella lotta che ha definito “Rivoluzione Civile”. Per la particolare condizione sociale in cui verte l’Italia in questo momento, il movimento non ha avuto il riconoscimento atteso ma, al contrario, ha mancato l’obiettivo che si era prefisso in partenza, anche se di sicuro ha inciso scuotendo le coscienze di molti italiani.

È innegabile che il contributo dato in magistratura e quello che potrebbe dare nella società civile è un patrimonio che non deve essere perduto. Eroi e servitori dello Stato non sono solo quelli cancellati a forza dalla violenza, ma anche quelli che con i fatti, e non con le sole parole, hanno inciso ed incidono per il miglioramento del presente, che da domani sarà letto come Storia.

Fra le sue opere sono ricorrenti analisi, opinioni, esperienze, trattati di criminalità, sociologia e avvenimenti che oggi possono essere consegnati alla Storia; per elencarne qualcuna: L’associazione di tipo mafioso, Milano, Giuffrè, 1993; L’eredità scomoda. Da Falcone ad Andreotti. Sette anni a Palermo, con Gian Carlo Caselli, Milano, Feltrinelli, 2001; C’era una volta l'intercettazione. [La giustizia e le bufale della politica. Lo strumento d'indagine, la sua applicazione per i reati di mafia e i tentativi d'affossamento], Viterbo, Stampa Alternativa, 2009; Nel labirinto degli dei. Storie di mafia e di antimafia, Milano, Il Saggiatore, 2010; Palermo. Gli splendori e le miserie. L'eroismo e la viltà, Milano, Melampo, 2012; Io so, con Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, Milano, Chiarelettere, 2012; Il sentimento del giusto. Un dialogo nel tempo con Paolo Borsellino, Milano, Il Saggiatore, 2012.

In questo scritto Antonio Ingroia, nato a Palermo nel 1959, prova a raccontare parallelamente la terra di cui si sente pianta di seme naturale ed etnico, e quanto accaduto e accade nel resto d’Italia; tenta di raccontarsi in quelle sue piccole azioni private e di vita pubblica in magistratura, a partire dall’inizio della sua carriera come uditore giudiziario sin dal 1987.

Racconta la casualità della sua esperienza professionale, determinata da un susseguirsi d’eventi che a qualsiasi persona apparirebbero surreali, ma che lui riesce a circoscrivere e descrivere con una naturalezza tale da rendere la sua storia uguale a quella di un qualsiasi giovane. Da lì a poco la vita di un ventenne che guarda al futuro con semplici prospettive, muta orizzonte a causa di una catena di vicende che, consapevolmente, comprende ed accetta. Vive la professione agli inizi come allievo di quella gente più esposta ed in vista, gente il cui scopo è l’impegno di riscattare la Sicilia e depurarla da tutte le sue ramificazioni, da tutte quelle scorie che ne intristiscono e cambiano i meccanismi, quella terra spesso definita un piccolo paradiso terrestre che alle volte fiorisce, ma che mai è riuscita a risplendere di luce propria. Espone un’analisi di fatti ed azioni in un contesto sociale e nazionale che spesso riportano in Sicilia, in particolare nel territorio palermitano.

Segnatamente descrive le diverse sfaccettature della società palermitana: ora società di apparenze; ora società quasi impossibile da immaginare se non la si conosce dall’interno e che emerge con il racconto minuzioso di fatti, accadimenti, prove, congiure, stragi, uomini e società schierati apertamente per la illegalità; ora come lotta per la legalità e per il riscatto di una terra perennemente dominata; ed infine come società pericolosa che lotta contro tutti, anzi è in guerra con tutti, costretta a convivere con chi vuole il cambiamento, e si fa forte nel contrasto con la strategia del braccio armato e stragista.

Andando avanti nella lettura, si comprende come a contrastare inizialmente questa società, “onorata”, tutelata, nascosta – “Cosa nostra” o, più comunemente, “mafia” – siano stati singoli individui con un profondo senso del dovere e della legalità; successivamente, in modo lento e graduale, queste singole persone iniziano ad aumentare, anche se rimangono in pochi di “qualità”.

Il racconto – oltre ad alcuni fatti personali e quotidiani – è un susseguirsi di vicende accadute che vanno dal periodo definito “sacco di Palermo”, passando attraverso la “primavera palermitana” e lo scontro frontale Stato-Mafia, fino al risveglio del popolo palermitano, per il quale a un certo punto, attendere la soluzione dai tutori e servitori dello Stato non è più sufficiente, ma è altresì necessario mostrare la propria faccia e schierarsi.

Volume molto ben redatto e che riscontra indubbiamente pareri più che positivi; Ingroia coinvolge il lettore, con un linguaggio chiaro e scorrevole nelle vicende, appassionandolo e facendogli raggiungere una consapevolezza che sembra materializzarsi nel giardino della porta accanto, mentre si ascolta il racconto di un vecchio saggio seduto al tavolo di un bar, nel pomeriggio arido ed assolato tipico della nostra Sicilia.

Una testimonianza che ciascuno dovrebbe leggere almeno una volta nella vita, soprattutto coloro i quali decidono fermamente di mettersi al servizio della “cosa pubblica”.

Per chi questi tempi li ha vissuti ed ha seguito con desiderio tale cambiamento, questo libro mantiene vivi la memoria per non dimenticare e lo spirito per continuare a credere in un cambiamento, mentre suscita, in chi non era ancora nato o non ha voluto sapere, una sensazione di risveglio della coscienza ed uno spunto per comprendere che, forse, questo cambiamento è davvero possibile.



Vito Passantino




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L'Estate in cui sparavano



Giorgio D’Amato, L’Estate in cui sparavano, Messina, Mesogea, 2012, 144 pp., ISBN 976-88-469-2116-1

Spesso ci rendiamo conto di quanto siamo immersi nella storia solo a posteriori. Gli avvenimenti ci colgono nel nostro divenire quotidiano e non sempre abbiamo la lucidità necessaria per riflettere su ciò che accade. Succede. Dalla caduta del muro di Berlino alle dimissioni di un papa. Ma a volte capita che questa storia ci sia talmente vicina e attraversi a tal punto le nostre vite da obbligarci a fare i conti con essa.
In esergo al suo libro, L’estate in cui sparavano, Giorgio D’amato cita Sciascia: “I siciliani, ormai da anni, chi sa perché, si ammazzano tra loro”. Citazione da una Storia semplice, che ovviamente, così come accade spesso in Sicilia, semplice non è affatto. E infatti un groviglio di sangue e vendette comincia a prendere forma nel suo interessante romanzo, con una sparizione – lupara bianca si dirà più tardi – quella del boss di Casteldaccia: Piddu Panno.
Ma ovviamente la storia, quella spietata della cronaca fatta dai killer di Cosa nostra, non ha ancora preso il sopravvento e quindi l’incipit descrive una splendida estate siciliana per il protagonista del romanzo, un ragazzo di 16 anni che vive la sua età tra amici, motorino e il lavoro pomeridiano al bar dello zio. Gli accadimenti, però, si impongono prepotentemente e il sangue comincia ad essere versato in abbondanza in quell’estate del 1982 con decine, e poi centinaia, di morti. Siamo in quel che diverrà il tristemente famoso triangolo della morte: Casteldaccia, Altavilla Milicia e Bagheria, ed è questo il vero asse portante del romanzo. D’Amato, infatti, ricostruisce – grazie a fonti documentarie quali giornali e media del tempo, in modo puntuale ed efficace e senza tralasciare i particolari più efferati – gli effetti della seconda guerra di mafia.
É una ricostruzione fedele, quasi da sceneggiatura cinematografica, ed è la storia della mafia vincente, quella dei corleonesi, che sostituirà quella storica, dei Bontade, Badalamenti, Buscetta, ecc. Gli omicidi sono raccontati dagli occhi ingenui di un adolescente curioso e da un avventore del bar dove questo ragazzo lavora a Casteldaccia:  Don Ciccio che, ogni tanto, in modo colorito e popolano, cerca di spiegare cosa avviene e cosa c’è sotto i vari morti ammazzati. Una figura, forse, poco siciliana proprio per la sua loquacità ma che risulta essenziale per la ricostruzione dei fatti.
 Per il resto il romanzo scorre abbastanza bene e accanto alle cruenti dinamiche mafiose, vede dipanarsi la storia dell’amicizia adolescenziale tra il protagonista e Antonio, un ragazzo intelligente e pieno di ideali, poco più grande: una generazione ancora indenne dal consumismo.
Si finisce in corteo nella famosa marcia Bagheria-Casteldaccia, di cui da poco si è commemorato il trentennale, e con la fine di una stagione che porterà maggiore consapevolezza sociale e individuale. Le vicende raccontate, che influiscono sui destini delle persone e che a volte ne cambiano la direzione, porteranno ad una maggiore presa di coscienza collettiva obbligando tutti a prenderne atto. Una sorta di romanzo di formazione a sfondo storico-mafioso che ha il pregio di far conoscere, soprattutto ai più giovani – con un linguaggio semplice e accattivante che spesso fa anche uso di anacoluti e sintassi dialettali – una pagina importante, e forse ancora poco conosciuta, di storia siciliana.

Maria Luisa Florio


La storia della mafia



Leonardo Sciascia, La storia della mafia, Palermo, Barion, 2013, 67 pp. (Pugni), ISBN 978-88-6759-001-8.

«La mafia è un’associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato.» (p. 25): questa è la definizione della mafia a cui arriva Sciascia all’interno di questo breve ma intenso volumetto, che in sole 37 pagine, si pone l’arduo obiettivo di ricostruire passo passo i momenti che hanno portato la mafia ad essere l’atroce piaga che ancora oggi non vuole – o non può? – scomparire da questa splendida isola.
La trattazione prende spunto dall’analisi etimologica del termine, che si fa derivare, seguendo la lezione del Traina, da maffia, ossia miseria, parola importata da funzionari piemontesi venuti in Sicilia dopo l’unità d’Italia. Del Traina e soprattutto del Pitrè Sciascia rifiuta e contesta la concezione del fenomeno mafioso, secondo cui «la mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti» (p. 8), ma è anzi «ipertofia dell’io, dell’io dei singoli siciliani» (p. 10).
Lo studio continua facendo risalire l’invenzione della mafia come associazione a delinquere a Giuseppe Rizzotto, che nel 1862 compose la commedia I mafiusi di la Vicaria: momento cruciale per la lotta contro la criminalità, secondo Sciascia, visto che il cambio di prospettiva attivò una serie di studi e indagini che misero in evidenza il fenomeno mafioso; l’autore è convinto che la mafia sia uno dei più grandi mali sociali e in quanto tale non può essere minimizzato, se c’è la volontà di liberarsene.
Nel testo non mancano i riferimenti letterari: notevole è quello a I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Per spiegare cosa fosse la mafia in origine, Sciascia prende ad esempio il fenomeno della «braveria»: «sgherri del tipo dei bravi,» dice «al servizio degli interessi e dei capricci dei nobili, in Sicilia furono i prototipi dei mafiosi» (p. 25). Mentre in Lombardia, una volta finito il dominio spagnolo, la “braveria” fu eliminata grazie all’energica attività dei funzionari austriaci, in Sicilia essa perdurò fino a diventare quella che vediamo ancora oggi.
Sciascia successivamente riflette sul tema del trasferimento, come arma più forte del potere mafioso: «in Sicilia un funzionario che si mostrasse sagace e onesto, resistente alla corruzione o alla pressione dei potenti, veniva isolato o espulso come corpo estraneo» (p. 27). Ne deriva che la storia della mafia non è altro che «storia della complicità dello Stato […] nella formazione e affermazione di una classe di potere improduttiva, parassitaria» (p. 28).
Il saggio si conclude con un breve accenno al rapporto tra mafia italiana e americana, emblema dell’inefficienza dello Stato di fronte alla potenza criminale.
Il libro consta di tre parti: la prima, di cui si è discusso sopra, reca il titolo che è anche dell’intero volume; la seconda, intitolata Io, Nanà e i don, scritta da Giancarlo Macaluso, è il racconto del rapporto di Sciascia col fenomeno mafioso, esposta da uno dei suoi più cari amici, Stefano Vilardo. Questi ci racconta quanto Nanà – così confidenzialmente gli amici chiamavano Sciascia – fosse stato un attento spettatore e un narratore lucido delle dinamiche che regolano i rapporti mafiosi, partendo dagli esempi concreti che osservava nella sua Caltanissetta: «Sciascia mi diceva che quando la mafia si imborghesisce […] poi sforna avvocati, medici, imprenditori, professionisti. Insomma, quelli che si chiamano colletti bianchi. Cambia la forma del mafioso, ma la sostanza resta sempre quella» (p. 49).
Il libro si conclude, e questa è la terza parte, con la Postfazione di Salvatore Ferlita, in cui è narrato il fitto scambio epistolare tra Sciascia e Italo Calvino.

Vincenzo Bagnera


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Globalmafia



Giuseppe Carlo Marino, Globalmafia. Manifesto per un'internazionale antimafia, con un contributo di Antonio Ingroia, Milano, Bompiani, 2011, 413 pp., (Tascabili Bompiani, 427), ISBN 9788845266652.

Giuseppe Carlo Marino, ordinario di storia contemporanea, pubblica nel 2011 per la Bompiani, Globalmafia. Manifesto per un'internazionale antimafia. L'intento dello studioso è di dare un chiaro contributo nella definizione di cos'è la mafia oggi. L'elevato numero di pubblicazioni sulla mafia e la nascita di un vero e proprio filone letterario sull'argomento hanno creato non poche confusioni interpretative e giudizi spesso superficiali. L'autore invece, che già nel 1964 scriveva di mafia (L'opposizione mafiosa), cerca di fare ordine e di dare un'identità a un fenomeno, che già da qualche tempo ha varcato i confini nazionali e che ha assunto connotati internazionali e globali, adattandosi pienamente e con successo alle trasformazioni dell'economia mondiale.
In un mondo in cui l'economia è sempre più avvitata alla politica, il malaffare trova terreno fertile per proliferare. La mafia si modernizza: unisce interessi vecchi (racket, stupefacenti, prostituzione ecc.) e interessi nuovi, in cui banche compiacenti e dinamiche finanziarie internazionali giocano un ruolo fondamentale nel riciclaggio di "denaro sporco".
L'analisi di Marino ci mostra come, di fatto, una Internazionale mafiosa esista, prosperi e trovi ferreo sostegno nell'andamento «criminale della politica che ormai appare quasi 'fisiologico' in numerose aree del mondo» (p. 89). La globalmafia è anche l'esito dell'unione delle varie forme di criminalità organizzata e della «sporca finanziarizzazione» determinata dalle varie forme di economia illegale e politica corrotta, alle quali si aggiunge il sostegno delle politiche neoliberali che propugnano la liberalizzazione totale dei «movimenti economici e finanziari, dei movimenti transnazionali umani e commerciali» (p. 80). Non è un caso che le attività più redditizie della mafia siano quelle che prevedano i traffici internazionali di denaro, stupefacenti, rifiuti e vite umane.
Il libro non si limita a una descrizione attenta e puntuale della mafia. Nella seconda parte, come appunto indica il sottotitolo, Marino invita le società civili dei paesi in cui è forte e necessario l'impegno nella lotta alla mafia a costituire una Internazionale antimafia, una contro-egemonia forte di un'alleanza globale, in grado di «disarticolare l'egemonia [mafiosa] e di colpirla nei suoi gangli vitali» (p. 133). «Infatti, quel che comunque urge a tutti i costi – scontando le difficoltà spesso proibitive da affrontare – è intanto restaurare e rilanciare nella cultura e nella dinamica sociale la dialettica tra l'utopia e la realtà. In tale dialettica, l'obiettivo strategico della contro-egemonia è impedire che i ceti dominanti corrotti e corruttori (quale che sia la loro inedita morfologia nazionale-internazionale) continuino nel loro astuto gioco mafioso, inventato dai baroni siciliani, di utilizzare l'offerta di "legalità" formale promossa dagli ordinamenti statali per alimentare le pratiche di sostanziale illegalità del loro dominio» (p. 141).
Nella grande comunità della società civile internazionale – secondo l'autore – un ruolo importante deve essere necessariamente svolto dai sindacati dei lavoratori, poiché è importante per la lotta alla mafia, ripartire dalla dignità, dai valori e dai diritti del lavoro, «troppo spesso umiliati, conculcati e travolti» (p. 141).
Rispetto a molti libri che invitano alla riflessione o si concludono rimarcando le difficoltà di chi lotta contro la mafia, Globalmafia ha il merito di lanciare un momento propositivo e di lasciare uno spiraglio: quello dell'utopia. Il «dio ignoto» – così l'autore chiama l'utopia – è forse l'unica vera forza cui affidarsi e in cui sperare nella costruzione di una «piattaforma di valori e di fini condivisi sui quali fare avanzare la civiltà del nuovo millennio. Al di là dell'impegno ambiguo per un'ambigua e improbabile 'legalità', e al di là di ogni pur meritoria lotta contro la cosiddetta criminalità organizzata, è questa la missione storica di portata generale alla quale è chiamata l'Internazionale antimafia» (p. 156).
La Postfazione (pp. 189-208) è affidata ad Antonio Ingroia, che ripercorre le vicende del pool antimafia dagli anni Ottanta a oggi e le scelte politiche e legislative che negli ultimi decenni sono state adottate per contrastare il fenomeno mafioso. Il suo contributo si conclude esortando a una «presa di impegno globale che possa fare realisticamente ipotizzare anche istituzioni globali per il contrasto a livello globale del crimine organizzato. Una sorta di procura globale antimafia sul modello della procura nazionale antimafia italiana» (p. 208).
Il volume è dotato di un'ampia appendice in cui sono riportate la Dichiarazione universale dei diritti umani (pp. 211-221); la Convenzione internazionale sull'eliminazione di discriminazione razziale (pp. 222-246); la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale (pp. 247-306); la Convenzione Onu sulla corruzione (pp. 307-399).
Si segnala anche un ottimo apparato di note e di riferimenti bibliografici.
Consiglio la lettura di questo libro per la sua chiarezza e per la sua valenza propositiva.

Piero Canale



Il Ghota di Cosa nostra



Piergiorgio Morosini, Il Ghota di Cosa nostra. La mafia del dopo Provenzano nello scacchiere internazionale del crimine, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, 203 pp., ISBN 978-88-498-2373-8


Può una sentenza diventare un’accurata analisi del mondo di Cosa nostra, della sua struttura, dell’organizzazione interna e perfino della sua storia? Questa domanda non è né nuova né insolita:  quando l’autorevole storico Carlo Ginsburg decise di “rivedere” le carte del processo Sofri – nel suo saggio Considerazioni in margine al processo Sofri – si aprì un dibattito molto acceso e interessante sulla “sovrapposizione” tra la figura del giudice e quella dello storico. Tale sovrapposizione produrrebbe inevitabilmente – a dire di alcuni –  la menomazione di entrambe le funzioni. Non ci sembra questo il caso. Anzi, lo stralcio della sentenza di primo grado emessa dal giudice Piergiorgio Morosini il 21 gennaio del 2008, nel procedimento penale a carico di Adamo Andrea, mette in luce, in modo chiaro e autorevole, i rapporti di Cosa nostra con la società; le complicità e le coperture degli ambienti politici, economici e sociali. Sorge immediatamente spontaneo, leggendola, l’accostamento tra il giudice e lo storico; basta andare a rivedere quanto lo studioso Francesco Renda ha sottolineato, in diverse occasioni, nei suoi scritti sulla mafia e cioè che Cosa nostra affonda le sue radici nella società, stabilisce con essa solidi e duraturi rapporti, cerca complici con vari ceti sociali, con la politica, con le pubbliche istituzioni e perfino con la Chiesa. La mafia non solo si nutre di questi rapporti, ma sono tali rapporti a darle perfino un’identità forte[1]. La sentenza, dunque, non fa che confermare con nettezza le analisi storiche e il testo del giudice Morosini ci dimostra come sia assolutamente naturale che, a volte, un giudice possa anche – seppur involontariamente – divenire storico.
      Tra quelle carte possiamo osservare il delinearsi di un percorso in cui due mafie agiscono in parallelo: quella arcaica del boss Provenzano e quella borghese delle nuove generazioni (p. IX). I due piani non solo si intersecano ma mostrano il modo in cui l’una finisce per diventare imprescindibile per l’altra.
L’operazione Ghota, da cui il libro prende il titolo, porta innanzitutto a smascherare l’intero sistema di appoggio e di protezione di cui godeva Provenzano prima dell’arresto. I pizzini ritrovati nel suo covo, infatti, spalancheranno le porte del carcere anche a professionisti insospettabili e naturalmente a politici di spicco.
Il momento dell’arresto di Provenzano è delicato: il vecchio boss è ormai stanco e braccato; continua ad essere oggetto di rispetto ma non più incondizionato; nell’ambiente di Cosa nostra, tutti sentono avvicinarsi ormai il momento dell’abdicazione. É questa la fase in cui la storia della mafia cambia: è necessario che l’organizzazione criminale ritorni sullo scacchiere internazionale, dopo gli anni di Riina e dei corleonesi. Ne è ben consapevole Lo Piccolo che su questa “internazionalizzazione” punta tutto, perfino la sua candidatura alla leadership di Cosa nostra, finendo inevitabilmente per scontrarsi con l’ala corleonese capeggiata da Anotonino Rotolo, capo mandamento di Pagliarelli. Agli arresti domiciliari – dopo aver congegnato metodiche dalle più artigianali alle più raffinate per sfuggire sia ai controlli delle forze dell’ordine sia ai suoi potenziali nemici – Rotolo continua a comandare e disporre, non sapendo di essere, invece, intercettato.
Binnu è una figura complessa e al tempo stesso cruciale nella svolta che si determinerà all’indomani del suo arresto; di lui Morosini ci dice che sembra un personaggio uscito dal Tractatus politicus di Spinoza: uno che, insomma, riesce a sottomettere offrendo paura ma anche ricchezze, un vero maestro nella strategia del bastone e della carota. Sottomissione in cambio di vantaggi e benefici, è questo il suo metodo.  Non a caso è a lui che si deve la creazione, all’interno di Cosa nostra, di un vero e proprio welfare secondo il quale i mandamenti più ricchi, avevano l’obbigo di redistribuire i profitti a quelli più poveri, evitando così faide legate agli affari.
Eppure il vecchio e onorato boss, a un certo punto, non riesce più a tenere a bada le rivalità interne alla sua organizzazione che – proprio alla vigilia del suo arresto – è sempre più vicina alla resa dei conti con una nuova guerra di mafia che sembra ormai tanto imminente quanto inevitabile. Rotolo è furioso perché è contrario al rientro degli Inzerillo in Italia. Lo Piccolo ne è consapevole: ricorda perfettamente il veto che Totò Riina pose su di loro e sa – da “uomo d’onore” – che i patti, dentro Cosa nostra, non si violano. Ma la consapevolezza non basta, gli Inzerillo servono a svecchiare Cosa nostra, a farla rientrare nel circuito dello spaccio internazionale di droga.  Uno dei temi principali del processo Ghota è proprio il ruolo che Cosa nostra esercita nella rotta Palermo-New York della droga: chiave di lettura fondamentale non solo per studiare il passato della mafia ma anche per capirne le future scelte. 
La droga produce profitti altissimi, conferisce potere, ma garantisce anche dominio ed espansione. In tal senso, riallacciare i rapporti con gli Inzerillo è essenziale per la famiglia Lo Piccolo. Rotolo dal canto suo è spaventato da questo ritorno perché sa bene che «per il sangue di un proprio congiunto non esiste il perdono nel codice di Cosa Nostra» (p.44). Proprio lui è stato protagonista diretto delle stragi con cui Riina, agli inizi degli anni ottanta, ha eliminato scientificamente numerosi membri di quella famiglia, proprio in relazione al controllo delle rotte che portavano la droga in America.
E come si comporta il boss di Pagliarelli dinnanzi a tale eventualità? Parla con Provenzano e in un pizzino gli scrive che non è ammissibile un rientro degli “esiliati” a Palermo. Il vecchio boss temporeggia per poi decretare, alla fine, che forse almeno in occasione della Pasqua, si potrebbe loro concedere una visita. Sembra che il “fantasma” non voglia prendere una posizione chiara e Rotolo, incassato il colpo, decide di fare a modo suo: inizia pertanto a progettare l’omicidio dei Lo Piccolo, padre e figlio. La presenza di Provenzano diventa dunque, sempre più lontana, sempre più sbiadita, quasi spettrale.
Alla fine la guerra si sfiora ma non si concretizza solo perché l’operazione Gotha porterà all’arresto di Provenzano. Mentre l’anno successivo saranno i Lo Piccolo a cadere nella rete degli inquirenti.
Al di là delle logiche interne ai clan, delle faide per la successione e delle guerre intestine, quello che rende interessante la sentenza – che non a caso diventa un libro accessibile anche ai non esperti del settore – è il modo in cui viene raccontata Cosa nostra dagli stessi appartenenti all’organizzazione criminale. Se prendiamo ad esempio le intercettazioni ambientali a casa di Rotolo o qualche “pizzino” ritrovato nel covo di Provenzano, da quelle conversazioni viene fuori una «Cosa nostra dal “vivo”, nel suo modo di essere e di pensare, con tutte le sue ambiguità, le sue contraddizioni e in tutta la sua terribile ingenuità» (p.19); non solo: emerge in modo drammatico quanto la mafia sia garantita da legami di acciaio che coinvolgono tanto la gente comune quanto le alte sfere non solo della politica – in modo trasversale ai partiti – ma anche del mondo delle imprese e della sanità. Le famiglie mafiose sono eterogenee e numerose. Al loro interno non mancano professionisti – dai medici, Antonino Cinà e Guttadauro, agli avvocati – e infiltrati nel mondo politico. Non è un mistero ormai che il salotto di Guttadauro era frequentato, durante gli arresti domiciliari, da numerosi esponenti del mondo politico e della borghesia cittadina.
È questo il modo in cui le due mafie – quella tradizionale e quella nuova – provano a convivere: dopo la stagione stragista di Riina inizia una nuova era in cui Cosa nostra mostra di avere come obiettivo primario l’accumulazione della ricchezza, l’impresa. Guttadauro e Cinà sono il volto della mafia che si innova e che vuole sostituirsi a quella dei vecchi boss «sanguinari e analfabeti» (p. 165); nessuno spargimento di sangue ma la costruzione di una nuova classe dirigente mafiosa che mira a fare affari insieme con e attraverso la politica. Certamente questa commistione esisteva anche ai tempi di Riina ma, in quel periodo storico, la mafia pretendeva la gestione diretta e centralizzata del sistema degli appalti. Già con Provenzano cambia tutto: si preferisce lasciare questo compito alle imprese di riferimento e quindi la presenza di Cosa nostra – seppur sempre forte e incisiva – appare molto più discreta. Meglio trattare con le istituzioni e magari anche «infiltrare mafiosi nella rete dei collaboratori di giustizia per depistare indagini e smontare sentenze già definitive» (p. 70).

Cosa nostra per divenire impresa ha dunque bisogno di relazioni e appoggi, del resto «non esiste mafia senza rapporti con la società, con la politica, con l’economia» (p. 138).
La sentenza del Giudice Morosini è del 2008. Oggi i rapporti tra la criminalità organizzata e la politica non solo continuano ad essere intensi ma hanno addirittura subito un mutamento antropologico: basti andare a riascoltare le intercettazioni telefoniche del camorrista che si dice soddisfatto di aver fatto piangere il deputato. La politica, dunque, non solo è complice ma appare persino totalmente sottomessa alla criminalità organizzata. Del resto, in molti casi, il bacino di consensi viene fuori proprio dalle decisioni interne alle organizzazioni criminali e – come è sempre stato – il favore ha un prezzo da pagare, spesso molto alto. Restano forti anche i legami con il mondo delle imprese, soprattutto quelle del Nord, e ciò crea uno scenario da brivido in cui le due categorie geografiche smettono di esistere come opposti, sovrapponendosi in un pericoloso intreccio di interessi, scambi, vantaggi reciproci che hanno dei costi altissimi che finiscono per gravare sulle spalle di tutti i cittadini onesti. Va detto però, che negli ultimi anni, anche gli imprenditori –soprattutto quelli di ultima generazione – hanno mostrato di voler mandare in black-out la spirale perversa del circuito delle estorsioni decidendo, finalmente, di denunciare e di opporsi, così facendo, al giogo del pagamento di questo odioso balzello.
Quale sarà il futuro di Cosa nostra non sappiamo. Molto ancora andrebbe fatto sul piano culturale – spesso trascurato – e non puntare soltanto tutto sulla sfera repressiva. Molto sicuramente potrà incidere anche l’esito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia, aiutandoci a svelare i misteri più profondi di una delle stagioni più tragiche della storia del nostro paese. Quello che è certo – e che questa sentenza spiega in modo chiaro e preciso – è che la mafia non ha futuro senza relazioni parallele col mondo politico ed economico.
Si dice che per trovare un antidoto ai mali è necessario prima conoscerne le cause. Le seconde le abbiamo da anni, attendiamo ancora di trovare finalmente il primo.

Alessandra Mangano


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[1] Cfr. F. Renda, Storia della Mafia, Sigma Edizioni, 1997, Palermo.

Fimmine ribelli




Lirio Abbate, Fimmine ribelli. Come le donne salveranno il paese dalla ‘Ndrangheta, Trebaseleghe (PD), Rizzoli, 2013, 208 p., ISBN 978-88-17-06359-3.

In Calabria le ‘ndrine sono la legge: è la terra dove i Pesce, i Bellocco, i Medda da Rosarno gestiscono traffici per tutta la penisola, con una manovalanza spietata e devota che afferma «è un onore per noi andare in galera»(p. 197).  In questa società  dai distorti valori, le ragazze sono sotto stretto controllo della famiglia e hanno il solo destino di sposarsi e figliare: «Non è facile dire di no alla ‘ndrangheta, per una donna. Nascere in una famiglia mafiosa implica quasi sempre assimilarne i valori e i codici di comportamento, accettando di rivestire un ruolo che può essere anche di prezioso sostegno gregario, ma sempre nell’ambito di una realtà in cui sono gli uomini a comandare davvero»(p. 191).
Ma in questo libro sono raccolte le storie di fimmine – perlopiù giovani spose e madri – che hanno saputo ribellarsi allo schema imposto loro dalla realtà in cui sono nate. La loro voglia di autoaffermazione scardina l’assetto del sistema e “disonora” la famiglia, ancor più se la donna si rivolge al Nemico, ossia lo Stato. Giuseppina Pesce, Rosa Ferraro, Maria Concetta Cacciola, Simona Napoli, hanno affrontato le loro paure e fragilità, ma ancor più, le loro famiglie. Hanno subito minacce, ritorsioni, ricatti: le ‘ndrine hanno calcato la mano su quelli che potevano essere pessimi esempi di condotta, giungendo alle esecuzioni delle più ribelli.
Su consiglio di Gaetano Grasso le loro storie sono state raccolte da Lirio Abbate, giornalista investigativo che ha sofferto sulla propria pelle le minacce mafiose e dal 2007 vive sotto scorta: «Il giornalista arriva dove il magistrato non può per legge. E muovendosi in questa terra di nessuno può scatenare l’ira di mafiosi, collusi e favoreggiatori, che si nascondono spesso dietro le facciate rispettabili di politici, commercialisti, avvocati, medici, giudici, banchieri e, a volte, anche giornalisti» (p. 12).
Con questa premessa, l’autore ricostruisce l’humus mafioso calabrese attraverso documenti e atti pubblici dei magistrati locali, inchieste e interviste a investigatori di questure e carabinieri, con un linguaggio chiaro e mai retorico. Il libro si fa leggere agevolmente, anche dai non esperti, e andrebbe consigliato nelle scuole perché, nel senso semanticamente più letterale del termine, è esemplare.

Eloisia Tiziana Sparacino


Cose di Cosa Nostra



Giovanni Falcone, Cose di Cosa Nostra, in collaborazione con Marcelle Padovani, Milano, BUR, 2007, 177 p., ISBN 978-88-17-00233-2.

Che cos’è la mafia? Una domanda apparentemente semplice, a cui Giovanni Falcone dà risposte semplici, immerse in un ragionamento molto più complesso. Varcando i confini di scienze come la psicologia e l’antropologia di cui il fenomeno mafioso, per il giudice palermitano, è profondamente impregnato, si fondono insieme una visione della realtà e dell’uomo stesso.
Il racconto delle “guerre di mafia”, il rapporto con i pentiti (tra i più importanti, Buscetta, Contorno, Mannoia e Calderone), la mattanza dei Corleonesi sono solo alcuni degli argomenti toccati da Giovanni Falcone che focalizza anche l’importanza, non indifferente, di una cultura mafiosa che fatica a scomparire: “l’interpretazione dei segni, dei gesti, dei messaggi e dei silenzi” (p. 49). Falcone non teme di sviscerare i minimi dettagli di questo Stato-altro, che nella sua Sicilia gli pare allungarsi come una nuvola piena di cattivi presagi in tutte le direzioni: dal mondo dell’agricoltura a quello dell’economia, della finanza e della politica.
«Per quanto possa sembrare strano, la mafia mi ha impartito una lezione di moralità» (pp. 70-71), scrive Falcone in un passaggio del libro, tentando di descrivere il suo (complesso) rapporto con quello che non esita a chiamare, per primo e senza mezze misure, lo «Stato-mafia» (p. 71). Uno Stato “parallelo” a quello rappresentato dalle istituzioni. Ma i cui meccanismi arrivano spesso a sopperire le carenze di uno Stato distratto e burocratico, fino a rimpiazzarlo in tutte le sue funzioni e i suoi punti vitali: l’assistenza ai cittadini, il deficit di istruzione, la mancanza di lavoro e di prospettive per i giovani. Un vuoto di Stato, a partire dalla progettualità di vita di ciascuno, che i mezzi a disposizione della mafia (oltre alla sua forte capacità attrattiva, per la combinazione di terrore e potere di cui dispone) non faticano a colmare. Tanto che, per il magistrato, la mafia «a pensarci bene, non è altro che espressione di un bisogno di ordine e quindi di Stato» (p. 71).
Questo libro è il risultato di venti interviste effettuate da Marcello Padovani a Giovanni Falcone tra il marzo e il giugno del 1991. A differenza dell’edizione di quell’anno, questa pubblicazione del 2007 contiene due capitoli, scritti dalla giornalista francese, che precedono le parole di Falcone: Dodici anni dopo pp. 3-7 e Prologo alla prima edizione 1991 pp. 9-19. Il racconto del giudice è quindi articolato in sei capitoli «disposti come… cerchi concentrici attorno al cuore del problema-mafia: lo Stato»: Violenze pp. 21-45; Messaggi e messaggeri pp. 47-71; Contiguità pp. 73-92; Cosa Nostra pp. 95-121; Profitti e perdite pp. 123-145; Potere e poteri pp. 147-171.

Biagio Bertino