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domenica 5 maggio 2013

C’era una volta un Vaticano. Perché la Chiesa sta perdendo peso in Occidente



Massimo Franco, C’era una volta un Vaticano. Perché la Chiesa sta perdendo peso in Occidente, Milano, Mondadori, 2010, pp. 178, ISBN 978-88-04-60469-3.

Un Vaticano in aperta crisi, un’istituzione secolare che perde consensi tanto in Europa quanto negli Stati Uniti. È stato proprio Benedetto XVI, oggi Papa emerito – eventualità impensabile nel 2010, anno di pubblicazione di questo saggio – a parlare del tramonto di un Vaticano. L’analisi di Massimo Franco – inviato e notista politico del Corriere della Sera – si pone come obiettivo la comprensione delle cause di questo tramonto: dalla pedofilia alle guerre di potere tra cardinali; dal cambiamento della società postmoderna all’incapacità della Chiesa cattolica di dare risposte immediate alle angosce di questo turbinoso secolo.
Se apparentemente la crisi ha avuto inizio negli ultimi decenni del secolo scorso, in realtà – dallo studio condotto da Franco – emerge con chiarezza, come essa affondi le sue radici nel periodo in cui finisce la guerra fredda. A partire da quel momento il nemico della Chiesa cattolica cessa di essere il comunismo. La nuova sfida delle gerarchie vaticane si chiama, oggi, Europa postmoderna e risulta tanto più pericolosa perché – a differenza dei vecchi nemici – più che essere ostile alla Chiesa le è estranea (p. 4).
La Chiesa cattolica è in ritardo e non riesce a cogliere i segni dei tempi. Ne deriva, secondo l’autore, il tramonto della «Prima Repubblica vaticana». Questa definizione richiama, non a caso, la crisi politica italiana degli anni novanta del Novecento (p. 6) che, come vedremo, non è affatto disgiunta dal declino della Chiesa romana.
Nemmeno i due ultimi papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, hanno potuto bloccare il processo di secolarizzazione e di indebolimento dell’autorità delle gerarchie cattoliche. Anzi, in molti casi, posizioni assolutamente inflessibili – la difesa del crocifisso contro il laicismo di parte dell’Europa, la contrarietà assoluta all’eutanasia e l’uso del preservativo in Africa – sono ormai considerate fortemente impopolari dagli stessi fedeli.
L’immagine odierna e per nulla positiva è, dappertutto, quella di una Chiesa che vieta e limita le libertà individuali, dice Franco. Ma in Italia, rispetto al resto del Vecchio continente e agli USA, la situazione si fa ancora più complessa perché – se è vero che la presenza del Vaticano resta abbastanza forte e radicata nella società e, secondo l’autore, è in grado ancora oggi di limitare tendenze separatiste difendendo, in qualche modo, l’unità del nostro Paese – è altrettanto vero che dopo la fine ingloriosa della Dc, la Chiesa non sempre è riuscita a trovare il modo di convivere col bipolarismo e con gli anni di governo Berlusconi, finendo per mostrarsi, in diverse occasioni, subalterna o collaterale a certi interessi.
Volendo cogliere il parallelismo tra la crisi della politica e quella della Chiesa cattolica – cui accennavamo poco prima - la vera domanda diventa però un’altra: è possibile che le «convulsioni di un Vaticano, rispecchino quelle di un Occidente?» (p. 8).
Per tramonto di un Vaticano si intende, infatti, non la fine del Vaticano – cosa di difficile attuazione – bensì la fine di un certo tipo di papato e di una certa forma di governo (p. 12).
Attribuire le responsabilità di questa implosione a papa Benedetto XVI è assolutamente impensabile, ma è certo, sostiene Franco, che dall’elezione di Ratzinger nel 2005, i problemi si sono accentuati: ci troviamo, infatti, dinanzi a una Chiesa debole e fragile all’interno che non riesce a parare i colpi che provengono dall’esterno.
Uno dei problemi più sentiti, sembra essere la terribile contraddizione tra l’istinto centralizzatore della Curia e il ruolo crescente delle singole conferenze episcopali nazionali. Abbiamo già avuto modo di discutere della società postfordista in altre recensioni – come quella di Marco Revelli del mese scorso –  e della crisi di un modello centralizzato non solo di produzione ma anche di struttura della società  e, in quella occasione, abbiamo sottolineato come, in un contesto così complesso, non solo i partiti politici ma anche strutture come la Chiesa – che di quel centralismo hanno fatto una sorta di imperativo strutturale – sono oggi in declino.
Ma non basta: pur essendo la Chiesa cattolica una realtà consolidata a livello mondiale ormai da secoli, sembrano proprio gli italiani ad essere il nodo cruciale del declino di un Vaticano. Basti pensare agli scontri tra la Segreteria di Stato di Tarcisio Bertone e la Cei di Angelo Bagnasco, oppure agli attacchi di Christoph Schönborn contro Angelo Sodano. Sembra cioè che «Roma e l’Italia siano le sedi di un potere cattolico emigrato ormai altrove» (p. 14). Dunque una realtà autoreferenziale e per nulla rappresentativa di un cattolicesimo che vede il suo futuro lontano dalle mura leonine.
Le periferie dell’Impero rivendicano oggi maggiore autonomia e guardano al centralismo romano ed europeo come un ricordo, come una memoria storica da rispettare ma nella convinzione che sia necessario voltare pagina.
L’autore insiste molto sulla fine della guerra fredda e sul declino dell’URSS comunista. Ci sarebbe un nesso, a suo avviso, tra la fine del comunismo e il tramonto di un Vaticano che – da sempre – ha rappresentato «la centrale morale dell’anticomunismo» (p. 18) che oggi non ha più ragion d’essere. Se muore il nemico storico e la Chiesa cattolica non è in grado di far fronte alle sfide della nuova identità globale, perché e come quel Vaticano può continuare a sopravvivere? In uno scenario tale è ovvio che tutte le storture – dalla pedofilia di alcuni preti, alle lotte intestine tra cardinali – finiscono per essere il sintomo di un male le cui radici vanno ricercate altrove.
Adesso che il comunismo non c’è più, dunque, il nemico della Chiesa diventa «la società liquida, postmoderna» (p.19). Nuovi nemici si sostituiscono ai vecchi e rendono più accentuato il declino della secolare istituzione. Come ha reagito Papa Ratzinger a questa crisi?
Dinanzi ad essa Benedetto XVI è apparso come «incarnazione e vittima» (p. 20), tanto più che le dimensioni di questo declino registrano numeri davvero preoccupanti: oggi i fedeli si sono ridotti notevolmente rispetto a trent’anni fa in molte parti del Vecchio Continente e le statistiche ci dicono che molti di questi allontanamenti si sono verificati alla morte di Wojtyla e dopo l’elezione di Ratzinger nel 2005.
Sul declino della Chiesa romana a livello continentale ha scritto diverse e accurate analisi Jean-Louis Schlegel, che ci spiega che le cause della fine di un modello non sono, ancora una volta, determinate dagli scandali bensì dalla perdita d’identità della Chiesa e dall’indebolirsi del suo messaggio e del suo linguaggio. È questa perdita d’identità che spinge i giovani francesi intervistati da Schlegel ad affermare che, quando si parla di fede, la prima immagine che viene loro in mente è l’islam che ancora riesce a fornire un forte riferimento identitario ai cittadini dei paesi in cui viene professato. Ciò non accade invece col cattolicesimo che pare più una tradizione, una questione legata al quotidiano ma che è ben lungi dal permeare la società in modo assoluto e coinvolgente come la religione di Maometto.
Malgrado i tentativi del restauratore Ratzinger di recuperare i fedeli alla tradizione cattolica, ci sono molti segnali che indicano il fallimento delle scelte del precedente Pontefice. Uno di questi è la festa pagana di Halloween – che, poco a poco, sta sostituendo le feste cattoliche e con esse i simboli della cristianità – contro la quale la conferenza episcopale spagnola e la diocesi di Parigi hanno espresso non solo un’assoluta condanna, ma hanno anche preso delle iniziative molto decise. «Hallowen è diventato l’emblema, quasi la metafora, di ciò che non funziona non soltanto nelle famiglie, ma nelle istituzioni europee[…]segnala l’involuzione culturale del Vecchio Continente» (p.33).
L’altra grande polemica – quella relativa alla rimozione del crocifisso dalle aule scolastiche – acquista un rilievo profondo negli interrogativi della Chiesa: la paura che la caduta dei simboli provochi dei vuoti pericolosi o ancor peggio il nulla. E non solo: i paesi che si sono affiancati nella lotta del Vaticano per preservare la tradizione e opporsi alla rimozione del crocifisso, sono prevalentemente quelli dell’Europa centrorientale condizionati dalla religione ortodossa. Emerge dunque, in tutta la sua drammaticità, la divisione tra occidente e oriente europeo. Divisione che coinvolge la Chiesa cattolica e ne scuote le fondamenta dal profondo. I paesi ortodossi hanno come obiettivo primario la lotta contro il secolarismo che – sia secondo Ratzinger che secondo Puppinck, direttore della lobby cristiana European Centre for Law and Justice – «è diverso ma non meno pericoloso del marxismo» (p. 36).  In questo scenario risulta difficile credere che l’auspicio di papa Giovanni Paolo II – l’unità spirituale dell’Europa cristiana nelle sue due componenti quella della tradizione occidentale e quella invece della tradizione orientale – sia realmente attuabile. Per tale ragione la creazione di un dicastero vaticano per rievangelizzare l’Occidente – voluto da Benedetto XVI – non ha fatto che rafforzare ulteriormente la debolezza della Chiesa cattolica.
Ma i nemici della Chiesa oggi non sono soltanto gli integralisti islamici, ma anche l’integralismo laicista. Pensiamo, a tal proposito, all’elezione di Obama alla presidenza statunitense, fatto che ha cambiato profondamente i rapporti tra la Santa Sede e l’amministrazione degli USA. Il Vaticano ha mostrato nei confronti del primo Presidente afroamericano della storia, una certa diffidenza e non poche preoccupazioni, legate non solo alle posizioni di Obama su temi etici delicati come l’aborto, ma determinate anche dai non pochi dubbi sulla fede del Presidente USA, che da piccolo si è formato, come sappiamo, nelle scuole islamiche in Indonesia. La Segnatura apostolica ha più volte parlato di un Obama «cripto marxista» (p. 49); un laico indubbiamente che, nei peggiori incubi della gerarchie vaticane, aveva tutte le carte in regola per diventare uno «Zapatero globale» (p. 51). In realtà, secondo Franco, l’errore della Chiesa è stato quello di non aver capito che per i milioni di elettori di Obama i temi etici non erano più, o non erano soltanto, l’aborto o i matrimoni omosessuali, ma anche e soprattutto l’economia e la crisi globale. Inoltre alcuni provvedimenti di Obama – come ad esempio il Pregnant Women Support Act – hanno finito, in alcune fasi della presidenza democratica, per ammorbidire le opinioni della Chiesa nei confronti del presidente laico.
Ma a prescindere dalle loro contrapposizioni sui temi etici, quello che oggi appare abbastanza certo è che, alla fine del secondo millennio, due modelli globali, come gli USA e il Vaticano, stanno declinando. L’inizio della fine per il primo ha avuto origine con l’attentato alle Twin Towers e col fallimento della Leman Brothers; nel caso della Chiesa cattolica, invece, lo scandalo della pedofilia ha assestato il colpo di grazia. La verità è comunque che, in entrambi i casi, si tratta di una spia che è sintomo allarmante di una grave malattia, di cui la reale causa è la crisi più ampia e complessa dell’Occidente. Caduti i «centri di gravità del passato» (p. 74) il mondo occidentale si trova di fronte a un mutamento che risulta difficile da gestire. Così come gli USA «si sono illusi di esercitare un governo centralizzato del mondo […] allo stesso modo la Chiesa si illude di conservare il monopolio della religione e della moralità occidentale» (p. 75).
Sul problema della pedofilia – uno dei sintomi più gravi del declino della Chiesa cattolica – la domanda più angosciante che tormenta i fedeli è da quanto tempo il Vaticano fosse a conoscenza degli abusi e perché gli scandali siano venuti fuori troppo tardi. Anche la Chiesa, però, dinanzi a questo bubbone, non riesce a fare a meno di farsi qualche domanda: perché nessuno parla della pedofilia diffusa nelle chiese di altre religioni? E come mai la pedofilia all’interno delle famiglie non suscita uguale sdegno e altrettante pagine sui giornali? È come se qualcuno stesse tramando contro il Vaticano, pur ammettendo che gli orrori sono accaduti e che le vittime vanno aiutate e risarcite. Eppure questo arrocarsi sulle proprie posizioni e il conseguente silenzio omertoso  finiscono per complicare non poco il ruolo della Chiesa nello scandalo della pedofilia. Per le vittime i colpevoli non sono solamente quelli che si sono macchiati del delitto, ma anche, e forse soprattutto, coloro i quali li hanno coperti. Benedetto XVI lo ha compreso e per questo ha prodotto le modifiche alle norme de gravioribus delictis che hanno portato a una serie di clamorose dimissioni di vescovi. Eppure da questa vicenda, lo stesso Ratzinger è uscito molto fiaccato in quanto, in Germania, autorevoli voci si sono alzate a chiedere se, il Papa, ignorasse davvero gli scandali, cosa strana visto che ai tempi era vescovo di Monaco.
In alcuni casi – come ad esempio quello denunciato dal New York Times nel 2010 sulla condotta di padre Lawrence C. Murphay che abusò di oltre duecento bambini sordomuti di un istituto cattolico di Milwaukee – sia Benedetto XVI che Tarcisio Bertone vennero, addirittura, apertamente accusati di aver insabbiato il caso. L’opinione pubblica si divise in quell’occasione e alcuni autorevoli studiosi arrivarono perfino a ipotizzare un vero complotto ai danni della figura del Papa e del Vaticano, colpevoli di aver tenuto una posizione di assoluta contrarietà alla guerra in Iraq.
Ma a rendere la vicenda ancor più complessa è il fatto che ciò che per la Chiesa è un peccato e basta, per la legge è prima di tutto un reato e, quindi, a rigor di logica, i preti coinvolti negli abusi, sarebbero dovuti necessariamente essere sottoposti al giudizio della magistratura, laddove invece il diritto canonico non prevede «nessun divieto di informare le autorità civili né di denunciare: il comportamento era rimesso alla discrezionalità degli episcopati» (p. 111). Impossibile non andare con la memoria all’Interdetto di Paolo V nei confronti dello Stato veneto nel 1600, definito «nullo e di nessun valore»  da Paolo Sarpi.
Eppure, nonostante siano passati molti secoli da allora, la Chiesa stenta a fare i conti con le innumerevoli contraddizioni e complessità della società postmoderna determinate anche, come abbiamo avuto modo di vedere, dalla caduta del Muro di Berlino e dal tracollo della Dc di cui «è rimasta vittima». Questo perché, mutuando l’analisi da Beniamino Andreatta, il comunismo - seppur avversario sul piano ideologico e politico - «garantiva l’unità politica dei cattolici italiani e la sopravvivenza della Dc» (p. 118).
Nella seconda parte del libro Franco si lancia, quindi, in un’analisi lucida e al contempo obiettiva del senso di smarrimento che attanaglia la Chiesa dopo le inchieste che hanno falcidiato, all’inizio degli anni Novanta, un’intera classe politica di riferimento per l’elettorato cattolico;  spingendosi, successivamente, fino alla nascita della Seconda Repubblica, all’ascesa di Berlusconi e della Lega Nord e ai governi di centro-sinistra guidati da Prodi. Ed è proprio la posizione della Chiesa su Berlusconi – riletta alla luce degli ultimi eventi e dei fortissimi cambiamenti sociali e politici che si sono determinati dal momento della sua “discesa in campo” – ad acquistare un rilievo molto consistente: dall’iniziale diffidenza, all’auspicio della transitorietà del personaggio, fino alla rassegnazione e al tentativo non riuscito, prima di «convertirlo», e successivamente di usarlo. 
In questa lunga analisi la Chiesa cattolica non assume affatto il ruolo da protagonista della politica italiana che molti hanno voluto attribuirle, spingendosi perfino a vedere in certi comportamenti del Vaticano delle vere e proprie intromissioni. La Chiesa descritta da Franco sembra, invece, essere piuttosto solo una mera spettatrice dinanzi ai due principali partiti di quegli anni – Ulivo e Polo delle Libertà – che stavano lì a contendersi il «suo» elettorato (p. 124).
La subalternità del Vaticano ai partiti politici italiani è palese – aggiunge Franco - persino nei rapporti con la Lega Nord, dapprima osteggiata dagli uomini di Cristo, poi – quando un Bossi in auge agitava lo scettro della revisione del concordato del 1984 – sostenuta su alcuni temi, in una reciproca concessione di scelte che hanno anche messo in serio pericolo la laicità dello Stato. L’atteggiamento conservatore dei leghisti dinanzi a temi etici come l’eutanasia, l’aborto e la fecondazione assistita, non è altro che una contropartita che la Lega di Bossi ha offerto al Vaticano in cambio del riconoscimento ufficiale di un partito che, ai suoi esordi, venne considerato dai discepoli di Dio come nemico numero uno dei valori di fratellanza, solidarietà e rispetto, viste le ben note posizioni xenofobe e razziste del partito del Nord.
Dunque – in contrasto con le teorie di quanti vedono nella Chiesa cattolica l’asse portante delle scelte politiche del paese – Franco affferma invece che, in questi ultimi vent’anni, la Chiesa abbia perso incidenza «nella politica italiana» (p. 133).
Se a questa debolezza si aggiunge persino «l’anarchia di responsabilità e di ruoli» che il Vaticano ha mostrato di avere durante il papato di Benedetto XVI, i danni subiti dalla secolare istituzione diventano incalcolabili e di difficile soluzione. Il linguaggio della Chiesa cattolica è obsoleto – ce lo ricorda bene il teologo Paul Knitter in uno dei suoi saggi più lucidi e sconvolgenti sul significato del cristianesimo oggi, nel caos turbinoso delle guerre e della violenza, della fame e della sofferenza[1] – i fedeli non si riconoscono più in una simbologia vecchia e difficile da rispettare per i cittadini della società postmoderna.
Nemmeno è accettabile pensare di addossare tutta la responsabilità al Pontefice emerito Ratzinger, lasciato solo in troppe occasioni – come ad esempio quella, ormai divenuta famosa, dell’infelice citazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo che ha suscitato numerose rivolte nel mondo islamico o, ancora, la vicenda legata alla riammissione del lefebvriano Richard Williamson. Ed è quella stessa solitudine ad aver provocato, probabilmente, la sofferta quanto inaudita decisione delle dimissioni, avvenute lo scorso febbraio.
Dinanzi ad ogni evento tumultuoso per il Vaticano non c’è mai stato un coordinamento nella comunicazione, e il Papa si è visto più volte costretto a smentire apertamente i suoi portavoce. Nessun messaggio concordato e unico per gestire le situazioni di crisi, ma un branco di voci difformi che non hanno fatto altro che ledere la già precaria autorevolezza del capo della Chiesa.
L’immagine che emerge da questo saggio è quella di una Chiesa accerchiata non solo nel Vecchio Continente: si stima che – poiché gli europei hanno un tasso di natalità dell’1,38 per cento,  la metà rispetto a quello degli immigrati extracomunitari (p. 154) – entro il 2050 un Europeo su quattro sarà di religione islamica.
Per salvarsi, dunque, un Vaticano, quel Vaticano, ha bisogno di rifondarsi e anche – se necessario – di ridimensionarsi. Che sia il nuovo Papa Francesco latore di questo cambiamento è ancora presto per dirlo, eppure il suo Pontificato sembra nascere sotto buoni auspici. Non ci resta che aspettare.

                              
Alessandra Mangano 



[1] P. Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano, introduzione di Luciano Mazzocchi, traduzione di Paolo Zanna, Roma, Fazi Editore, 2011, 320 pp., (Campo dei Fiori, 002), ISBN 978-88-6411-239-8.  




Donne cavalieri incanti follia: viaggio attraverso le immagini dell'Orlando furioso: catalogo della mostra



Lina Bolzoni, Carlo Alberto Girotto (a cura di), Donne cavalieri incanti follia: viaggio attraverso le immagini dell'Orlando furioso: catalogo della mostra, in collaborazione con il comitato scientifico della mostra, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2013, 191 pp., ISBN 978-88-6550-173-3.

Dirò d’Orlando in un medesimo tratto
 cosa non detta in prosa, né in rima:
 che per amor venne in furor e matto,
 d’uom che sì saggio era stimato prima.

Il libro è il catalogo dell’omonima mostra, tenutasi a Pisa fra il dicembre 2012 ed il febbraio 2013, ideata e curata da Lina Bolzoni del CTL – Centro di Elaborazione Informatica di Testi e Immagini nella Tradizione Letteraria della Scuola Normale Superiore di Pisa in collaborazione con il Comune di Pisa. L’intento era di indagare la persistenza dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto con il suo corredo di rêverie, di iconografia e iconologia, di capillare infiltrazione nella cultura, anche popolare, nelle sue infinite declinazioni. A cinquecento anni dalla sua stesura sono stati analizzati e riproposti – nelle più disparate fenomenologie – rivisitazioni, rimandi, studi, risemantizzazioni e citazioni del Furioso: «La nostra idea» – scrive la Bolzoni – «era di mostrare come un grande classico della nostra letteratura abbia vissuto per secoli, e viva tuttora, non solo attraverso la lettura e l’interpretazione critica, ma anche attraverso le immagini che ha da subito ispirato, attraverso le incisioni, i quadri, gli affreschi, gli oggetti, e anche attraverso le nuove opere che ad esso si sono rifatte» (p. 10). Dopo l’Introduzione (pp. 7-14), il corpo dell’opera si articola in schede delle opere in mostra, tutte illustrate e corredate di bibliografia di pertinenza in calce, a cura del comitato scientifico della mostra (Rosario Perricone, Chiara Callegari, Federica Pich, Nicola Catelli fra gli altri). Sono suddivise in due macrosezioni: la prima, Dentro al libro. Le edizioni del Furioso (pp. 15-98) tratta delle edizioni illustrate del poema e della sua fortuna letteraria fino al Novecento, sia come testo in sé che come exemplum per molta letteratura cavalleresca. Sono riportate le incisioni di edizioni pregiate, indagando la loro composizione architettonico-spaziale, l’incorniciatura e il dialogo delle illustrazioni col testo, o il riuso della medesima incisione per commentare un testo affine ma diverso. La seconda macrosezione, Fuori dal libro. Il Furioso tra arti figurative e performative (pp. 99-171), mostra come – e quanto! – il personaggio abbia avuto fortuna e sia stato ripreso. Si succedono dunque le schede d’incisioni, fogli volanti, teatro, maioliche, tele, che giungono ad acquisire linguaggio contemporaneo in film, street artperformances artistiche. Dalle incisioni di Gustave Doré alla versione televisiva di Ronconi e Sanguineti, dai Pupi e fondini dell’Opra siciliana al Paperin Furioso che Luciano Bottaro ha disegnato per I grandi classici Disney, l’Orlando pazzo d’amore continua a raccontare le sue storie di viaggio, follia, e battaglie. Il volume si chiude con la Bibliografia (pp. 172-184) e l’Indice delle illustrazioni (pp. 185-190).


Eloisia Tiziana Sparacino


Il trono cremisi



Sudhir Kakar, Il trono cremisi, Vicenza, Neri Pozza, 2010, 318 pp. (Le Tavole D'Oro), ISBN 978-88-545-0482-0.

Il libro racconta gli ultimi anni del regno di Shah Jahan, imperatore Mogul, e la guerra fratricida per la conquista del trono; la vittoria di Aurangzeb su Dara, il Wali Ahad (l'erede al trono). Questa però è soltanto la storia dell'India del XVII secolo.
Il romanzo racconta questa vicenda attraverso gli occhi di due "medici" europei, Niccolò Manucci (un veneziano) e François Bernier (un francese discepolo del filosofo Gassendi), entrambi entrati a far parte della corte dei Mogul. Agli occhi dei due narratori l'India si presenta con tutte le sue stranezze, con tutte le sue differenze e bizzarie, con tutte le sue contraddizioni. Emergono infatti nelle pagine narrate, le descrizioni dei luoghi, molto attente puntuali, e anche una descrizione delle genti che i due europei incontrano. Nulla sfugge ai due osservatori e, infatti, mirabili e affascinanti sono le immagini che essi riescono a dare di quel mondo lontano, in cui convivono indù, musulmani e sciiti. La tolleranza religiosa di Dara si scontra con il fanatismo religioso di Aurangzeb. La guerra che si scatena fra i fratelli racconta una storia di tradimenti, di vendette e di una rassegnazione al fato: «Gli astri possono anche rivelarsi crudeli, soprattutto se il loro fuoco ha cominciato a spegnersi» (p. 245).
Nel romanzo storico si assiste anche alle diverse opinioni che ognuno dei due narratori si fa della situazione politica in India. Niccolò Manucci piange sei mesi per la disfatta di Dara e la vittoria di Aurangzeb, e la sorte che da tale vittoria toccherà agli indù perseguitati dal fanatismo religioso. François Bernier non può che lodare le doti machiavelliche del vincitore (anche se sarebbe più giusto parlare di Arthasastra, capolavoro dell'arte di governo anteriore al Principe), deprecando l'incapacità e la mollezza di Dara.
Il trono cremisi è però anche la storia di voluttà, di gelosie, di amori, di spezie e di colori. Le cronache dei due narratori europei sono anche un tentativo antropologico di comprensione dell'altro-da-sé. Questo dato risulta interessante dal fatto che, l'India descritta dagli occhi dei due viaggiatori europei, è a sua volta filtrata e narrata dall'autore Sudhir Kakar, uno dei più noti scrittori e psicanalisti indiani. L'autore si serve, infatti delle opere redatte dai due cronachisti, le quali sono puntualmente riportate in un'appendice bibliografica.
Mi piace citare questo brano dell'opera, perché mi ha profondamente colpito e reso la bellezza di un mondo lontano:
«Rifugiamoci nei piaceri della filosofia mentre intorno a noi infuriano i conflitti, Bernier» mi disse con un sorriso che non riusciva a dissimulare la tensione degli ultimi quattro mesi. «Rimarremo qui a Delhi anziché raggiungere la corte ad Agra. E voi mi svelerete i misteri del pensiero di Cartesio, e soprattutto la quarta parte del suo Discorso sul metodo. Ancora non capisco perché la frase: ‘Penso, dunque sono’ sia il principio fondamentale della sua filosofia, né per quale motivo egli la definisca una verità ‘così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla’. A me sembra la dichiarazione di fede di un credente, e non la conclusione ragionata di un filosofo» (p. 243).
L'edizione della Neri Pozza di Vicenza è corredata inoltre di un glossario in cui è riportato il significato delle parole indiane che ricorrono nel testo, un modo molto utile per far conoscere la cultura indiana di quel periodo (infatti nel glossario sono indicati i nomi degli indumenti tipici, il gergo di corte, le piante, i cibi, ecc.).
Piacevole, pregevole e utile lettura: lo consiglio.



Piero Canale



Il codice del quattro



Ian Caldwell e Dustin Thomason, Il codice del quattro, Milano, Piemme, 2004, 366 pp.

È Pasqua a Princeton. Gli studenti prossimi alla laurea sono immersi nella preparazione delle tesi e due di loro, Tom Sullivan e Paul Harris, sono a un passo dal risolvere i misteri dell’Hypnerotomachia Poliphily, un’opera rinascimentale che, dal giorno della sua pubblicazione, ha eluso gli sforzi di quanti tentavano di decifrarla. Uno di questi è il padre di Tom, e se per lui la ricerca rappresenta una sorte di eredità culturale, per Paul diventa invece un’ossessione, la ragione stessa della vita.
Nonostante l’impressione di essere molto vicini alla soluzione del testo, i due ragazzi si trovano di fronte a una barriera invalicabile, finché un diario perduto, emerso dal passato, fornisce loro un indizio di importanza fondamentale. Ma quando, qualche giorno dopo, un loro compagno viene brutalmente assassinato, Tom e Paul capiscono di non essere stati i primi a tentare di decifrare i segreti dell’Hypnerotomachia. Mentre i due amici si misurano con codici e indovinelli che mettono a dura prova il loro intuito, il libro appare loro sotto una nuova luce: non più una storia di fede, erotismo e sapere, ma un vero e proprio labirinto matematico, una sorta di percorso a ostacoli disseminato di morti. Tutti quelli che vi si sono addentrati hanno pagato a caro prezzo il loro desiderio di conoscenza, e anche Tom e Paul capiscono che la loro vita sia a rischio.
Dalle strade della Roma cinquecentesca al campus di una delle più prestigiose università americane, un thriller ricco di suspense, follia e genio. Questo libro, scritto a quattro mani, è ricco di citazioni dotte tratte da moltissime fonti: Bibbia, Leon Battista Alberti, ecc. Buona l’idea di inserire nel testo le illustrazioni che vengono citate, fornendo la possibilità al lettore di avere un riscontro visivo di ciò che viene raccontato.
L’Hypnerotomachia Poliphily (Sogno della lotta d’amore di Polifilo) è uno degli incunaboli più prestigiosi e oscuri del mondo occidentale. Pubblicato a Venezia nel 1499, il numero di copie sopravvissute è inferiore a quello della Bibbia di Gutenberg. Gli studiosi discutono ancora sull’identità e sulle finalità di Francesco Colonna, l’enigmatico autore del libro. Solamente nel dicembre del 1999, cinquecento anni dopo la prima edizione a stampa del testo originale, è stata edita la prima traduzione inglese completa dell’Hypnerotomachia.




Biagio Bertino





Gang bang



Chuck Palahniuk, Gang bang, Milano, Mondadori, 2011, 208 pp., ISBN 978-88-04-59112-2.


Irriverente, scandaloso, crudo, politicamente scorretto, immorale, sfacciato. Tutto questo è Chuck Palanhiuk, scrittore e giornalista statunitense, autore di una serie di romanzi di grande fortuna come, tra gli altri, Fight Club (1996), Soffocare (2001) e Cavie (2005).
Gang bang, pubblicato per la prima volta nel 2008, racconta la storia della leggendaria, nonché attempata, pornostar Cassie Wright e della sua colossale impresa, con la quale vuole concludere la sua più che decennale carriera: una enorme gang bang (pratica sessuale in cui un soggetto, di sesso maschile o femminile, svolge attività sessuali con una moltitudine di partner, ndr) che ha lo scopo di polverizzare il precedente record mondiale. Ripresa dalle telecamere, l’attrice ha infatti come obiettivo di fornicare con 600 uomini. Il filtro attraverso cui tutto è raccontato è quello di quattro personaggi: N. 72, uno studente, che sostiene di essere il figlio legittimo di Cassie; N. 137, vecchio attore, caduto nel dimenticatoio, che ricerca disperatamente una seconda chance per il rilancio televisivo; N. 600, noto come Branch Bacardi, attore veterano dell’industria pornografica; Sheila, l’assistente tuttofare di Cassie.
La narrazione degli eventi è resa ancora più interessante da alcuni colpi di scena: in primis, Cassie vorrebbe morire durante le riprese del film, cosa che renderebbe lei stessa immortale nel tempo e la pellicola un cult mondiale. Leggendo si scopre inoltre che la Wright, durante le riprese del suo primo film concepì un figlio, subito dopo abbandonato: a questo figlio lei adesso vuole donare gli introiti del lungometraggio che sta girando. Ma chi sarà questo figlio? Sarà uno dei quattro protagonisti?
Gang bang è molto divertente, ma non si sente la forza di altri lavori precedenti di Palahniuk. La frammentarietà della narrazione non sempre dà i frutti sperati, soprattutto nel momento in cui le voci dei personaggi si incanalano verso il finale comune, e non riesci a capire se durante lo svolgimento hai perso qualche particolare importante. A tratti questo romanzo sembra nient’altro che una raccolta di racconti a luci rosse, e non è sostenuto da una concreta visione distorta del mondo, dominato da ingiustizia e prepotenza, come invece accade in Fight Club.

Vincenzo Bagnera