Visualizzazioni totali

giovedì 5 settembre 2013

Il caos


Pier Paolo Pasolini, Il caos, Roma, l’Unità/Editori Riuniti, 1991, 253 pp.

Dall’agosto del 1968 al gennaio del 1970, Pasolini scrive per il periodico Tempo una rubrica che ha come oggetto diversi temi: dalla politica, alla cultura, al costume contemporaneo; ma anche recensioni, risposte ai lettori e appunti di viaggio. Il caos è la raccolta di questi scritti che l’Editore ha voluto pubblicare, nel 1991, ordinando i testi scelti secondo la loro successione cronologica e raggruppandoli per annate.
Pasolini stesso ci spiega le ragioni che lo spingono ad accettare questo incarico e lo fa nel suo primo articolo: «la necessità “civile” di intervenire, nella lotta spicciola e quotidiana, per conclamare […] una verità affermativa» [p. 18]. La verità di Pasolini presuppone, innanzitutto, il rifiuto di comportarsi da persona pubblica. L’autorità produce, infatti, terrore perché si basa su un insieme di comandamenti negativi o, più semplicemente, su divieti cui lo scrittore non intende sottomettersi. Per questa ragione il titolo della rubrica, Il Caos, si contrappone al terrore violando, in un certo senso, questi divieti che accomunano – nel mondo borghese – tanto la destra quanto la sinistra. È interessante notare che, in questa occasione, Pasolini non si riferisce, come potrebbe sembrare, al terrorismo staliniano, quanto piuttosto allo «snobismo estremistico di certi adepti del PSIUP» [p. 19].
La libertà di Pasolini non è determinata dal suo essere indipendente ma, ci dice lo stesso scrittore, dal suo essere solo. È proprio la solitudine ciò che garantisce allo scrittore la libertà di essere cinico con tutti, persino col suo editore capitalista. Ma, del resto, ci ricorda lucidamente e provocatoriamente l’autore, se possiamo leggere Marx e Lenin lo dobbiamo agli editori capitalisti e borghesi che li hanno pubblicati [p. 20].
La rubrica è permeata fortemente da tutti i temi essenziali che hanno contraddistinto la ricerca e le opere di Pasolini, primo tra tutti la profonda trasformazione del tessuto sociale italiano e, in particolare, il passaggio dalla civiltà contadina a quella del benessere e del capitalismo. Feroce, in tal senso, la critica che egli muove al Natale, festa che, di anno in anno, manifesta sempre più apertamente il forte embrassons-nous tra la Religione e la Produzione: «la Chiesa è ancora più asservita di prima al Capitale […] il Capitale strumentalizza la Chiesa solo per abitudine, per evitare guerre religiose, per comodità» [p. 96].
Inevitabile, dunque, che il bersaglio principale del suo discorso settimanale diventi la borghesia che, per Pasolini, non è una classe sociale ma una «vera e propria malattia» [p. 21] che ha finito per contagiare, contaminandole, anche quelle classi sociali che si sono sempre poste come obiettivo il combatterla.
Il Caos è una rubrica volutamente provocatoria, per certi versi anche aggressiva, nei confronti di tutti coloro i quali, intellettuali “di sinistra” inclusi, dimostrano di essere complici del degrado culturale della contemporaneità. In essa vi sono anche pagine di estremo dolore e solitudine. Colpisce, da subito, il senso di estrema oggettività nel descrivere la realtà: non è forza e nemmeno qualunquismo, non è indifferenza: è la solitudine che rende il poeta indipendente: «se sono indipendente lo sono con rabbia, dolore e umiliazione: non aprioristicamente, con la calma dei forti, ma per forza» [p. 19]. Gli anni della rubrica sono quelli dello scontro col PCI e del dissenso con il movimento studentesco: Pasolini rifiuta di allinearsi alle posizioni ufficiali e resta un intellettuale contro e pertanto scomodo. In occasione del sequestro delle copie di Teorema, chiaro è il riferimento al suo essere sempre e comunque un irregolare. Anche il suo opporsi presuppone indipendenza perché, ci dice, «anche nel “potere contrario al potere” ci sono dei settori (altrettanto oscuri e imprecisabili) che cercano volontariamente di colpirmi, di eliminarmi…» [p. 99].
Ora, dinanzi a questo Potere, qual è il ruolo dell’intellettuale? Se per circa un ventennio, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’egemonia culturale era stata detenuta dal PCI, negli anni ’70, quando cioè Pasolini scrive questa rubrica, quella stessa egemonia è passata nelle mani dell’industria. Ciò determina ovviamente lo svilirsi della figura dell’intellettuale, prima guida e vate nazionale, oggi ridotto invece a strumento nelle mani della borghesia e del mercato. Ciò accade perché il sistema borghese è in grado di assorbire ogni contraddizione, o meglio «crea esso stesso le contraddizioni per sopravvivere, superandosi» [pp.21-22].
Sono diversi i temi affrontati da Pasolini nella sua rubrica a corredo dei fatti di cronaca di quegli anni. Il razzismo, in primo luogo, in relazione alla guerra tra Israele e gli arabi. Di questo terribile problema lo scrittore ci dice che, nel tempo, esso è destinato ad aumentare a dismisura, a causa della «polverizzazione della collettività» la quale, frantumando la società, determinerà odio tra le diverse parti. Certo quest’odio si è oggi modificato, Pasolini lo aveva quasi previsto, ma la sostanza di questo sentimento non muta. Il povero, il diverso, l’altro continuano a provocare fastidio, insofferenza e a volte, dice lo scrittore friulano, persino “ripugnanza” [p. 29].
In secondo luogo, emerge con tutta la sua forza, la grande e più che mai attuale questione della democrazia reale che, in Pasolini, acquista una valenza molto particolare, in relazione alle sue idee sul Potere, sulla partecipazione, sui soggetti propulsori del cambiamento e della decisione. Secondo lui l’Italia avrebbe vissuto pienamente la democrazia reale soltanto durante gli anni della Resistenza e nel corso del ’68, in occasione del diffondersi del Movimento Studentesco. Tanto la Resistenza quanto il ’68 sono, infatti, due esperienze che furono trainate dall’idea del socialismo. In tale ottica, il tema del decentramento del potere, cui Pasolini dedica, direttamente o indirettamente, una parte molto importante della sua rubrica, e più in generale di tutta la sua opera letteraria, appare, oggi più che mai, di un’attualità sconcertante, anche in virtù dell’ampio dibattito, apertosi recentemente, sul futuro dell’attuale sinistra e sul declino della rappresentatività. Tutto ciò rende quindi queste pagine così vicine al nostro vissuto che sembra siano state scritte ieri. Autogestione implica responsabilità e il popolo italiano non sembra essere pronto, abituato com’è, da sempre, «al culto dell’autorità e del potere»[p. 43]. Chissà cosa penserebbe oggi Pasolini del presidenzialismo in discussione in questi giorni; del Movimento 5 Stelle o di una nazione che, oggi come ieri, continua ad essere «ignorante, provinciale, volgare, riduttiva, vecchia, terroristica, ingiusta» [p. 162]. 
Il Caos è preludio indispensabile alla lettura del Pasolini “corsaro” di qualche anno dopo. Il suo atteggiamento cinico può risultare oltremodo pungente e suscitare, persino, una feroce antipatia. Ma del resto è proprio questo il rischio-beneficio dell’essere veramente liberi: la schiettezza rende Pasolini un personaggio al contempo “scomodo” per la ferocia della sua analisi ma, nondimeno imparziale nel giudizio.
Ciò che non dobbiamo però dimenticare e che emerge, con forza, dalla lettura di queste pagine è che a questa libertà Pasolini arriva con dolore e sofferenza, perché dissentire ha un prezzo: quello di essere sempre impari.
La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza [p. 100].
Impossibile, dunque, leggere Pasolini senza aver ben chiara la sofferenza di questa drammatica solitudine.

Alessandra Mangano


Nessun commento:

Posta un commento