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sabato 23 novembre 2013

Paul Celan (23 novembre 1920 - 20 aprile 1970)

Ricordiamo Paul Celan...
(23 novembre 1920 - 20 aprile 1970)


Todesfuge

Schwarze Milch der Frühe wir trinken sie abends
Wir trinken sie mittags und morgens wir trinken sie nachts
Wir trinken und trinken
Wir schaufeln ein Grab in den Lüften da liegt man nicht eng
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt
Der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland dein goldenes Haar Margarete
Er schreibt es und triff vor das Haus und es blitzen die Sterne
Er pfeift seine Rüden herbei
Er pfteift seine Juden hervor lässt schaufeln ein Grab in der Erde e
Er befiehltb uns spielt auf nun zum Tanz

Schwarze Milch der Frühe wir trinken sie abends
Wir trinken sie mittags und morgens wir trinken sie nachts
Wir trinken und trinken
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt
Der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland dein goldenes Haar Margarete
Dein aschenes Haar Sulamith wir schaufeln ein Grab in den Lüften
Da liegt man nicht eng
Er ruft stecht tiefer ins Erdreich ihr einen ihr andern singet und spielt
Er greift nach dem Eisen im Gurt er scwingts seine Augen sind blau
Stecht tiefer die Spaten ihr einen ihr andern spielt weiter zum Tanz auf

Schwarze Milch der Frühe wir trinken sie abends
Wir trinken sie mittags und morgens wir trinken sie nachts
Wir trinken und trinken
Ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar margarete
Dein aschenes Haar Sulamith er spielt mit den Schlangen
Er ruft spielt süsser den Tod der Tod ist ein Meister aus Deutschland
Er ruft streicht dunkler die Geigen dann steigt ihr als Rauch in die Luft
Dann habt ihr ein Grab in den Wolken da liegt man nicht eng

Schwarze Milch der Frühe wir trinken sie abends
Wir trinken sie mittags und morgens wir trinken sie nachts
Wir trinken und trinken
Der Tod ist ein Meister aus Deutschland sein Auge ist blau
Er trifft dich mit bleierner Kugel er trifft dich genau
Ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete
Er hetzt seine Rüden auf uns er schenkt uns ein Grab in der Luft
Er spielt mit den Schlangen und träumet der Tod ist ein Meister aus Deutschland

dein goldenes Haar Margarete


Paul Celan



giovedì 14 novembre 2013

Le avventure di White-Man a Palermo


Si è inaugurato venerdì 8 novembre il XXXVIII Festival di Morgana – Poikilía: variazioni sul tema, diretto da Rosario Perricone per conto dell’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari. Organizzato presso la sua sede storica, il Museo delle Marionette, ad aprire le due settimane di eventi e incontri è stato lo spettacolo The adventures of White-Man di Paul Zaloom, un performer di Los Angeles, marionettista, regista e scrittore dalla tagliente ed allegra satira. Morale, politica, e costume vengono da lui raccontate attraverso il filtro corrosivo del teatro di oggetti: sono loro i minuscoli protagonisti di un teatrino del trash (sur)reale che rivela logiche squallide e crudeli miserie del protagonista, il White-Man del titolo, abitante del pianeta Caucazoid letteralmente venuto da cielo in Terra a miracol mostrare. La sua "civiltà" s’impone su indigeni e natura, sostituendo l’artificiale e conformato al vario e spontaneo: il White-Man lotta per il "bene" della Terra, che ovviamente è il suo "bene". Sul piccolo palco di un teatrino, proiettato sul megaschermo che agisce da fondale, gli oggetti si affastellano affannosamente, animati e raccontati dall’istrionico Zaloom. Trofei sbeccati, bambole smembrate, mappamondi da due lire, stelle di latta, sagome di cartone sono mostrati come veri e propri idoli della società, nel duplice senso greco di eidola, ossia immagini e fantasmi: del consumismo, dell’ipocrisia, del perbenismo, dell’avidità e dell’egoismo. Hanno perso la loro funzione iniziale per diventare contemporanee marionette risemantizzate. Oggetti perlopiù inutili e kitsch che si ricollegano ai discorsi portati avanti da molti artisti contemporanei di Junk Art e Art of Trash (ma già iniziati dall’Arte Povera di Pistoletto e dalla Pop Art di Warhol), che acquistano fascino con la narrazione vivace di Zaloom. Per maggiore fruibilità, sullo schermo si proietta la traduzione del testo inscenato, ma sono gli oggetti a raccontarsi da sé. E quando cala il sipario e si riaccendono le luci, ci si può avvicinare al tavolo e costatare che, finita la magia dei riflettori, ciò che resta è solo spazzatura.
Per le informazioni sullo spettacolo e sul programma del festival è possibile consultare il sito del Museo delle Marionette.


Eloisia Tiziana Sparacino

L'artista Paul Zaloom (a sinistra) e il direttore del Festival Rosario Perricone.

martedì 5 novembre 2013

Pier Paolo Pasolini (a cura di Alessandra Mangano)

È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita, l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
[Dalla raccolta Versi dal paese dell’anima, a cura di Nicola Crocetti, introduzione di Cesare Segre, 2012]


Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo del 1922. Durante la sua infanzia si sposterà frequentemente in diverse città, a causa della carriera del padre, ufficiale di artiglieria. Tuttavia, i momenti determinanti della sua infanzia si svolgono a Casarsa (in Friuli) dove il contatto con la natura, la semplicità dell’esistenza e i rapporti genuini avranno successivamente, su Pasolini adulto e scrittore, un impatto di notevole rilevanza.

“Sono uno che è nato in una città piena di portici nel 1922. Ho dunque quarantaquattro anni, che porto molto bene; mio padre è morto nel ’59, mia madre è viva. Piango ancora, ogni volta che ci penso, su mio fratello Guido, un partigiano ucciso da altri partigiani, comunisti sui monti, maledetti, di un confine disboscato con piccoli colli grigi e sconsolate prealpi.” [Poeta delle ceneri]

Durante gli anni dell’Università collabora con diverse riviste, tra cui Il Setaccio della Gil (Gioventù Italiana del Littorio, nda) di Bologna, e pubblica la sua prima opera: la raccolta di poesie in dialetto friulano dal titolo Poesie a Casarsa.

“Fontana di aga dal me paìs
A no è aga pì fres-cia che tal me paìs
Fontana di rustic amòur”(Fontana d’acqua del mio paeseNon c’è acqua più fresca che al mio paeseFontana di rustico amore) [Poesie a Casarsa]

In seguito alla cattura del padre, avvenuta per mano degli inglesi nel corso della guerra in Africa Orientale, Pier Paolo insieme con la madre e il fratello, si trasferisce a Casarsa dove, assieme ad alcuni amici, fonda nel 1945, l’Academiuta di lengua furlana.
Non sono anni facili: il fratello, arruolatosi come partigiano nella divisione Osoppo, viene ucciso da un gruppo di partigiani comunisti legati agli sloveni. Il padre, dopo il ritorno dall’Africa, vive in un continuo stato di depressione.
Dopo la laurea Pasolini aderisce al Partito Comunista Italiano e inizia la carriera di insegnante presso la scuola media di Valvasone a Casarsa.

“Come sono diventato marxista? Ebbene…andavo tra fiorellini candidi e azzurrini di primavera, quelli che nascono subito dopo le primule, e poco prima che le acacie si carichino di fiori, odorosi come carne umana, che si decompone al calore sublime della più bella stagione – e scrivevo sulle rive di piccoli stagni che laggiù, nel paese di mia madre, con uno di quei nomi intraducibili si dicono ‘fonde’, coi ragazzi figli dei contadini che facevano il loro bagno innocente (perché erano impassibili di fronte alla loro vita mentre io li credevo consapevoli di ciò che erano) scrivevo le poesie dell’ ‘Usignolo della Chiesa Cattolica’, questo avveniva nel ’43: nel ’45 ‘fu tutt’un’altra cosa’. Quei figli di contadini, divenuti un poco più grandi, si erano messi un giorno un fazzoletto rosso al collo ed erano marciati verso il centro mandamentale, con le sue porte e i suoi palazzetti veneziani. Fu così che io seppi ch’erano braccianti, e che dunque c’erano i padroni. Fui dalla parte dei braccianti, e lessi Marx". [Poeta delle ceneri]

Nel 1947, accusato di corruzione di minori e di atti osceni in luogo pubblico, viene licenziato e, contemporaneamente, espulso dal PCI. Sebbene i vari processi a cui verrà sottoposto lo scagioneranno totalmente, lo scrittore è costretto a trasferirsi a Roma assieme alla madre, per sfuggire alla costante persecuzione cui è soggetto a causa della sua omosessualità.

Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico di questa parola” [Risposta alla Federazione di Udine dopo l’espulsione]

Quelli di Roma sono anni fondamentali: la vita nelle borgate, a contatto col popolo delle periferie urbane e del sottoproletariato, costituirà l’humus nel quale germoglieranno le sue più grandi opere letterarie e cinematografiche. L’incontro con il regista Sergio Citti sarà, in tal senso, di grande importanza per Pasolini.

“A Roma, dal ’50 a oggi, Agosto del 1966, non ho fatto altro che soffrire e lavorare voracemente. Ho insegnato, dopo quell’anno di disoccupazione e fine della vita, in una scuoletta privata, a ventisette dollari al mese: frattanto mio padre ci aveva raggiunto e non parlammo mai della nostra fuga, mia e di mia madre. Fu un fatto normale, un trasferimento in due tempi. Abitammo in una casa senza tetto e senza intonaco, una casa di poveri all’estrema periferia, vicino a un carcere. C’era un palmo di polvere d’estate, e la palude d’inverno. Ma era l’Italia, l’Italia nuda e formicolante, coi suoi ragazzi, le sue donne, i suoi “odori di gelsomini e povere minestre”, i tramonti sui campi dell’Aniene, i mucchi di spazzature: e, quanto a me, i miei sogni integri di poesia. Tutto poteva, nella poesia, avere una soluzione. Mi pareva che l’Italia, la sua descrizione e il suo destino, dipendesse da quello che io ne scrivevo, in quei versi intrisi di realtà immediata, non più nostalgica, quasi l’avessi guadagnata col mio sudore.” [
Poeta delle ceneri]

Sarà l’uscita del romanzo Ragazzi di vita, nel 1955, a consegnare Pasolini alla fama, seppure in seguito a diversi ostacoli, tra cui annoveriamo un processo per pornografia, dal quale verrà nuovamente assolto. Negli anni Cinquanta l’impegno dello scrittore si dividerà tra la scrittura, la sceneggiatura e l’attività sociale e politica. Nel 1955 fonda, insieme con Francesco Leonetti e Roberto Roversi, il fascicolo bimestrale di poesia dal titolo «Officina»; partecipa al dibattito interno al PCI, collabora col settimanale comunista «Vie nuove» mentre pubblica altre due opere: la raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci e il romanzo Una vita violenta, rispettivamente nel 1957 e nel 1959.

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro di te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere del mio paterno stato traditore – nel pensiero, in un’ombra di azione – mi so ad esso attaccato nel calore degli istinti, dell’estetica passione; attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza: è la forza originaria dell’uomo, che nell’atto s’è perduta, a darle l’ebbrezza della nostalgia, una luce poetica: ed altro più io non so dirne, che non sia giusto ma non sincero, astratto amore, non accorante simpatia… come i poveri povero, mi attacco come loro a umilianti speranze, come loro per vivere mi batto ogni giorno. Ma nella desolante mia condizione diseredato, io possiedo: ed è il più esaltante dei possessi borghesi, lo stato più assoluto. Ma com'io possiedo la storia, essa mi possiede; ne sono illuminato: ma a che serve la luce?[...]

[Le ceneri di Gramsci, in Le ceneri di Gramsci]

L’impegno di Pasolini come regista ha inizio invece negli anni ’60 con l’uscita del film Accattone (1961). Molti dei suoi film finiscono per suscitare scandali e polemiche, ma il cinema porta a Pasolini una fama ancora maggiore tanto che, a partire dagli anni ’60, molte delle sue opere verranno tradotte in diverse lingue. Sono gli anni dei viaggi in Africa e nei paesi islamici che Pasolini, spesso, fa in compagnia di Moravia. Stringe una sincera amicizia con la cantante lirica Maria Callas, protagonista del suo film Medea (1969) e intrattiene un’importante relazione con Ninetto Davoli, un ragazzo di periferia che Pasolini trasforma in attore brillante dei suoi film.
Polemizza con la neoavanguardia con la quale dissente totalmente e nel ’68 anche col movimento studentesco. Famosa ormai la sua poesia dal titolo Il PCI ai giovani!!! nella quale l’intellettuale difende i poliziotti, di origine proletaria, contro gli studenti, considerati borghesi e figli di papà.

È triste. La polemica contro il PCI andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, figli, e non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati…

Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio delle Università) il culo. Io no, amici. Avete facce da figli di papà buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano […]
[La poesia, un frammento da Il PCI ai giovani!]

Le rubriche di attualità e critica letteraria degli anni ’70 – ricordiamo ad esempio Caos che noi stessi abbiamo recensito lo scorso settembre – sono di una straordinaria attualità, di lucida critica e feroce ironia.
In polemica col PCI si avvicina al Partito Radicale e scrive la sceneggiatura del suo ultimo film Salò e le 120 giornate di Sodoma che fece, ancora una volta, scalpore. La notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975 Pasolini viene assassinato da un diciassettenne all’idroscalo di Ostia. Sull’efferato omicidio sono stati scritti diversi saggi tra i quali ci sembra doveroso menzionare Profondo Rosso, di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, edito nel 2009 da Chiarelettere. Nel 1995 il regista Marco Tullio Giordana presenta alla 52a Mostra internazionale d’arte cinematografica a Venezia, il film Pasolini, un delitto italiano, che ricostruisce le fasi del processo a Pino Pelosi, esecutore materiale del delitto.
Come abbiamo già accennato, gli anni dell’infanzia trascorsi a Casarsa saranno fondamentali per il futuro letterario di Pasolini. In quel periodo trascorso a contatto con la natura, infatti, inizia la ricerca sul dialetto friulano il cui uso, da parte dell’autore, è ricco di significati e di simboli: il dialetto della madre è la migliore lingua per esprimere la natura incontaminata e la purezza del mondo contadino. L’opera di Pasolini è tutta costellata dal feroce dualismo tra quest’ultimo e la civiltà borghese e capitalista. In tale prospettiva, dunque, la scelta di una lingua pura, come il dialetto, serve ad esaltare il mondo della semplicità e del lavoro, dell’umiltà e della fatica, in contrapposizione a quello, ormai rovinato del benessere e del consumo, per descrivere il quale è sufficiente utilizzare il registro linguistico tradizionale, già contaminato dal capitalismo. Le prime poesie risentono particolarmente del realismo ottocentesco e specialmente di Pascoli, il quale peraltro è oggetto della tesi di laurea di Pasolini. Da altre poesie più tarde verranno fuori influssi di autori come Saba, Bertolucci e Caproni.

Così il dialetto è la più umile e comune maniera di esprimersi; è solo parlato e a nessuno viene in mente di scriverlo. Ma se quell’idea venisse in mente a qualcuno? Voglio dire l’idea di usare il dialetto per esprimere i propri sentimenti, le proprie passioni? Non certo, tenetevelo bene a mente, per scrivere due o tre bazzecole per far ridere, o per raccontare due o tre vecchie storielle del proprio paese (perché allora il dialetto resta dialetto e finisce lì), ma con l’ambizione di dire cose più elevate, difficili magari…”

[Stroligut di ca’ de l’aga]

Le ceneri di Gramsci resta, comunque, l’opera poetica principale di Pasolini: si tratta di una feroce quanto lucida riflessione morale sulla vita sociale italiana degli anni Cinquanta, racchiusa in poemetti costruiti in terzine, con un chiaro riferimento allo stile di Pascoli.
La poesia deve avere per Pasolini un fine pratico, deve cioè, farsi strumento di promozione del cambiamento sociale e politico. Per questa ragione molti hanno visto nelle sue ultime raccolte in versi, un ‘allentamento dell’impegno stilistico’ in virtù, invece, di una maggiore polemica contro il presente e le sue contraddizioni. Il vero intellettuale per Pasolini non è chi cede al compromesso col potere, ma chi ha il coraggio di utilizzare le proprie qualità artistiche per denunciare il marcio. La bellezza non può più essere “cantata” perché l’hanno depredata e violentata. Far finta che non sia così e lasciarla protagonista della scrittura, diventa mero esercizio retorico. Bisogna invece descrivere le metropoli degradate e affamate, il brutto che trabocca copiosamente da esse, la disperazione e la fame, la povertà e la solitudine.
Pasolini inizia a scrivere presto, spinto dalla necessità di fare i conti con la sua vita, le sue aspirazioni, le delusioni, i sensi di colpa. Le sue opere narrative della giovinezza – Amado mio, Atti impuri – usciranno postume nel 1982. La meglio gioventù, che si rifà fortemente all’esperienza neorealista, è del 1949 ma verrà pubblicata soltanto nel 1962.
È il mondo del sottoproletariato urbano che interessa particolarmente l’autore: quell’autenticità popolare che spesso si traduce anche in esperienze estreme, disperate e in veri e propri atti teppistici, contraddistingue quasi tutta la produzione letteraria degli anni ‘50 e ‘60. Le borgate romane fanno da sfondo a diverse raccolte di racconti e romanzi: Alì dagli occhi azzurri (1965), Ragazzi di vita (1955), Una vita violenta (1959). Per quanto la spontaneità dei protagonisti rimandi alla genuinità dei paesaggi e dei personaggi di Casarsa, a quel mondo incontaminato e autentico, in questi romanzi la drammaticità delle esistenze, la disperazione, la tragicità delle condizioni di miseria e fame allontanano i personaggi dalla purezza del mondo contadino friulano. In questo caso, l’uso del dialetto, serve a rappresentare in maniera più compiuta e realistica tutta la complessa drammaticità di quelle esistenze.
È proprio la tensione verso la rappresentazione più autentica della realtà che spinge Pasolini ad abbracciare l’arte del cinema. Nulla come il cinema è in grado di parlarci in modo diretto e schietto della realtà e questo è uno dei tanti motivi che spingono Pasolini a non scegliere quasi mai attori professionisti. Chi volesse approfondire ulteriormente la visione che l’intellettuale friulano aveva del cinema, può leggere il suo Empirismo eretico (1972).
Troppo complessa, da riportare in uno spazio così angusto, l’esperienza di Pasolini come regista. I suoi film hanno sempre suscitato dei sentimenti estremi: sono stati criticati aspramente oppure accolti con calore dal pubblico anche all’estero. Certamente hanno fatto discutere. Il rapporto di Pasolini col cinema è impregnato di dolore e delusione. L’impotenza dinanzi alle incomprensioni dei più, le critiche ma anche i processi, affliggono e prostrano notevolmente l’autore. In molti articoli – anche sulla rubrica Il Caos – l’autore polemizza con quanti accusano il suo cinema di volgarità e di nonsense. In realtà l’opera cinematografica di Pasolini risulta piuttosto versatile ed eterogenea e non segue affatto un filone statico: si va da film estremamente ideologici e realistici come Accattone (1961), Il Vangelo secondo Matteo (1964), Uccellacci e uccellini (1966) alla produzione prettamente mitico-simbolica di Teorema (1968), Porcile (1969), Medea (1970); fino ad arrivare all’esaltazione dell’erotismo inteso come espressione estrema di vitalità, ma anche di accostamento alla morte, in un intrecciarsi freudiano di Eros e Thanatos spesso presente in molte opere di Pasolini. A quest’ultimo filone appartiene la cosiddetta Trilogia della vita che comprende opere come Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e il Fiore delle mille e una notte (1974).
Un discorso a parte merita invece Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). In un’intervista del luglio 1975 a Marco Olivetti su Sipario, Pasolini dice che in questo film «il sesso, sia pure in modo onirico e stravolto, diventa la metafora di ciò che oggi il potere fa dei corpi». La sottomissione, la mercificazione della persona, le torture fisiche e psicologiche che il potere si concede, senza rischiare alcuna censura o punizione, trovano nel film una rappresentazione simbolica volutamente cruda e brutale. L’opera, come già Teorema, ebbe non pochi problemi di censura. Il produttore, Grimaldi, fu processato e bisognerà aspettare vent’anni prima che al film venga riconosciuta la valenza artistica che merita.
Negli anni Cinquanta inizia la sua attività di critico letterario. Si tratta di saggi sulla lingua, sulla letteratura e sul cinema che, in molti casi, sono stati raccolti e pubblicati. Ricordiamo, tra tutti, Passione e Ideologia (1960); Empirismo eretico (1972) e Descrizioni di descrizioni uscito postumo nel 1979.
La saggistica di Pasolini è volutamente provocatoria. I suoi scritti trasudano passione e aggressività. Oggetto dei suoi attacchi è la degenerazione della società contemporanea, contro la quale Pasolini si erge come un guerriero solitario. Non soltanto la borghesia, il consumismo, il capitalismo sono i nemici contro cui combattere ma anche il “perbenismo” degli intellettuali di “sinistra.”Il suo approccio ferocemente critico lo isola e di questa solitudine Pasolini risente profondamente. La rabbia, l’angoscia e il dolore legati a questa condizione di emarginazione, cui lo costringono le sue posizioni controcorrente, vengono fuori in molti suoi scritti, specie nei testi delle rubriche di corrispondenza che tiene, per diversi giornali, tra gli anni ‘60 e ‘70. L’Italia che emerge da queste pagine è un paese che ha perso irrimediabilmente il gusto della bellezza, i cui paesaggi sono stati deturpati dalle leggi del profitto e i cui cittadini sono ormai omologati e rassegnati al devastante degrado morale e culturale. Responsabili di questa degenerazione sono la televisione, in primo luogo, ma anche la scuola di massa e il Sessantotto che, unitamente alla classe politica del Paese (con la DC in testa), hanno reso possibile la distruzione del Paese.

Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto, cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un uomo che consuma, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. [Scritti corsari]

La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. […] Ho visto dunque ‘coi miei sensi’ il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza…il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, buttata per sempre... [Scritti corsari]

Molti di questi scritti sono stati raccolti e pubblicati nel corso degli anni e costituiscono, ad oggi, il più importante testamento spirituale del grande intellettuale: dalle Belle Bandiere (1977) al Caos (1979) a Scritti corsari (1975) e Lettere Luterane (1976).

E oggi, vi dirò, che non solo bisogna impegnarsi nello scrivere, ma nel vivere:

bisogna resistere nello scandalo e nella rabbia, più che mai, ingenui come bestie al macello, torbidi come vittime appunto:

bisogna dire più alto che mai il disprezzo verso la borghesia, urlare contro la sua volgarità, sputare sopra la sua irrealtà che essa ha eletto a realtà, non cedere in un atto e in una parola nell’odio totale contro di esse, le sue polizie, le sue magistrature, le sue televisioni, i suoi giornali. [Poeta delle ceneri]

I brani citati sono tratti da:
Alessandro Favaro, Paolo Bernardi (a cura di), Stupendo e misero Pasolini. 1975-2005 omaggio a trent’anni dalla scomparsa, Cgil Veneto e Unione degli Studenti del Veneto, Padova, 2005.

La ricostruzione della vita e delle opere dell’autore è tratta liberamente da:
G. Ferroni, Storia della letteratura italiana, Il novecento, Milano, Einaudi Scuola, 1996, pp. 511-525.






Borbonia felix

Renata De Lorenzo, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Roma, Salerno Editrice, 2013, 230 pp., (Aculei, 13), ISBN 9788884028303.

Renata De Lorenzo, docente di storia contemporanea presso l'Università «Federico II di Napoli», pubblica per i tipi della Salerno Editrice, un'opera che mette ordine e chiarezza sulla storia degli ultimi cinquant'anni di vita del Regno delle Due Sicilie.
Il libro analizza le dinamiche interne al regno e la situazione internazionale che portano al collasso dello stato meridionale e alla fine della dinastia dei Borboni.
L'opera mette in evidenza, non solo l'inadeguatezza e il ritardo storico dei regnanti borbonici (in particolar modo di Ferdinando II) a guidare il regno, i quali si presentano come ultraconservatori e dispotici, ma anche le difficoltà, l'estrema complessità, le contraddizioni della vita politica e amministrativa, della società e dell'economia dell'Italia meridionale preunitaria.
Privo di una classe borghese influente e propositiva e ostile a ogni apertura liberale, il Regno delle Due Sicilie si trova anche a gestire – o forse sarebbe meglio dire "a non gestire" – una difficile convivenza tra Sicilia e Napoli, iniziata con l'unione dei due regni, e consumatasi definitivamente nel 1849.
Il crollo improvviso di un Regno è l'insieme di molti fattori. L'anacronismo dell'apparato dirigente e amministrativo, risalente al periodo murattiano, 1806-1815, e dell'esercito, oltre ai latenti conflitti interni tra ambienti di corte, tra provincia e capitale, tra Sicilia e Napoli, l'isolamento internazionale e la scarsa considerazione in Europa dei reali, fanno del Regno una struttura fragile: «per questi e altri fattori, tra i quali non sono secondari gli appoggi internazionali, l'impresa garibaldina dallo sbarco a Marsala l'11 maggio 1860, sembra non forzare la situazione ma essere l'occasione di uno sfascio atteso, irrecuperabile, e insieme incredibile, frutto anche di complotti» [p. 28].
Il libro è anche una risposta di metodo storiografico a quegli alfieri del revisionismo storico che si improvvisano scopritori di complotti, congiure e malefatte che gli storici di professione non avrebbero voluto rivelare. Infatti, con estrema onestà e rigore metodologico, Renata De Lorenzo mostra come sin dall'indomani dell'unificazione nazionale, gli intellettuali meridionali levarono voci critiche nei confronti dei risultati ottenuti con l'annessione del regno meridionale al Piemonte e soprattutto nei confronti dei metodi utilizzati. Ad esempio, Mariano D'Ayala, ufficiale dell'esercito borbonico e poi politico sostenitore dell'unità d'Italia, «si pone il problema di tutelare il patrimonio del Risorgimento meridionale ed è contro la politica cavouriana, a suo parere conciliante verso gli ex borbonici» [p. 171].
È fatto un breve cenno anche agli «equivoci primati» che tanto appassionano i revisionisti, i nostalgici neoborbonici e la letteratura di facile consumo. Vero è che la prima tratta ferroviaria italiana è la Napoli-Portici del 1837, ma alla vigilia dell'unificazione, la Pianura Padana conta già 1372 km di linee ferrate sui 1800 dell'intera penisola italiana, mentre la Sicilia ne è totalmente priva. Ciò non è un'accusa di arretratezza del Mezzogiorno, ma è la prova della totale mancanza di una politica economica di sviluppo e di interventi strutturali, che caratterizza il governo di Napoli e la casa regnante.
Il merito, che va riconosciuto alla De Lorenzo, è di aver dato voce ai personaggi che sono viva testimonianza degli eventi e del clima politico del regno napoletano, per questo motivo sono preziosi e fondamentali soprattutto il quinto capitolo, Famiglie di "patrioti" [pp. 74-101], e l'ottavo ed ultimo capitolo, Imbarazzo e nostalgici di mondi sconfitti [pp. 167-177], sebbene acquistino valore e importanza proprio all'interno del libro e del lavoro di ricerca dell'autrice.
L'opera comprende un ottimo apparato di Note [pp. 179-213], dal quale è possibile ricavare una poderosa bibliografia che dà misura del lavoro di ricerca compiuto dalla storica, soprattutto sulle pubblicazioni dei protagonisti circa i fatti studiati. È presente anche un Indice dei nomi [pp. 215-227].
Borbonia felix fa parte della collana Aculei, dedicata ai grandi temi della storia che dividono l'opinione pubblica. La collana è diretta da Alessandro Barbero, professore ordinario di storia medievale presso l'Università degli studi del Piemonte Orientale.


Piero Canale



Enigmi siciliani

Guglielmo Scoglio, Enigmi siciliani. L’Artemisio, Démena, Il Cenacolo di Monforte, Firenze, Phasar Edizioni, 2013, 171 pp., ISBN 978-88-6358-205-5.

Monforte San Giorgio, piccolo comune della provincia di Messina che conta quasi 3000 anime. Un paesino siciliano che, come tanti altri, nasconde tra le sue vie e nelle parole degli abitanti più anziani una storia antichissima e “romanticamente” attraente ed emozionante, che non deve essere dimenticata. Che non può essere dimenticata. Questo è l’obiettivo di Enigmi siciliani, scritto da Guglielmo Scoglio, intellettuale messinese, ex docente oggi in pensione, monfortese di nascita. Ma non solo, il testo vuole essere, per esplicita ammissione dell’autore, un omaggio all’intera famiglia Scoglio, che nel 2013 festeggia il bicentenario della propria presenza nel comune della Valle del Niceto.
Il volume si articola in quattro parti: le prime tre trattano di tre enigmi legati al territorio di Monforte San Giorgio, ossia l’ubicazione del tempio di Diana Facelina, del sito dell’antico castello chiamato dagli arabi Dmns, e dell’ultima Cena, splendida scultura marmorea presente nella Chiesa Madre di Monforte. L’ultimo capitolo è costituito, invece, da una breve ricostruzione della storia della famiglia Scoglio, da cui viene fuori «un ricordo dei suoi più recenti membri da cui risalta il loro amore per il Paese natio» [p. 5].
Mentre i primi due enigmi erano già stati trattati dall’autore in precedenti libri – e qui ripresi e sviluppati nuovamente alla luce dei nuovi studi pubblicati – il terzo rappresenta un “inedito” e, a parer nostro, particolarmente interessante.
L’autore, dopo aver ricostruito dettagliatamente il periodo storico in cui la scultura vede la luce – il XVI secolo, “periodo d’oro di Monforte” [p. 94] – passa ad analizzarne la struttura generale: egli riscontra nel punto focale di tutta l’opera, l’eucaristia, la realizzazione piena ed esemplare delle direttive del Concilio di Trento. Nella sua particolarità e complessità l’altare – continua l’autore – non era fruibile ai fedeli in tutte le sue parti e quindi, probabilmente, la scultura veniva spiegata dai sacerdoti. Lo scrittore prosegue con la descrizione minuziosa di ogni singolo elemento, scolpito e dipinto, e quindi con la “prepotente” simbologia che gli sta dietro. Prima di dedicarsi alla descrizione della genesi dell’opera e a ipotizzarne i probabili artefici, Scoglio confronta la cappella del SS. Sacramento, in cui l’altare è contenuto, con l’omonima e contemporanea della Basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma. L’enigma su cui ci si concentra riguarda una parte dell’altare, ossia il Cenacolo: viene ipotizzato, infatti, che questo era stato originariamente realizzato per un’altra sede e solo successivamente dirottato a Monforte. I motivi di questo dirottamento erano legati a doppio filo con la finalità celebrativa di questa scultura: essa era stata progettata, infatti, in ricordo della battaglia di Lepanto, per ricordare i cavalieri che avevano difeso la Cristianità. Questa tradizione, che si richiamava ai Cavalieri Templari, era considerata esoterica e rifiutata dalla Chiesa ufficiale.
Un testo nel complesso molto interessante, che ci fa venir voglia di visitare i luoghi narrati e di osservarne direttamente i capolavori descritti che celano gli enigmi. Da notare due caratteristiche: nell’introduzione ad ogni enigma Scoglio si pone degli interrogativi a cui si propone di rispondere durante la trattazione; apprezzabile traduzione di alcune parti del libro a cura di Denise Schiattarella. 

Vincenzo Bagnera




Cronaca dei tre giorni

La memoria. Il 14 novembre del 1973, all’epoca della dittatura dei colonnelli, un gruppo di giovani studenti occupa il Politecnico di Atene in segno di protesta contro la Giunta militare. La rivolta viene soppressa dall’esercito su ordine di Papadopoulos. Moltissimi i feriti, alcuni di essi rimarranno invalidi a vita. Quei giovani lottavano contro la dittatura, per la libertà e la democrazia. Il 14 novembre 2013 ricorre il quarantesimo anniversario di quella rivolta. Noi vogliamo ricordarlo così. Ringraziamo Lorenzo Cusimano per la sua recensione.


Kostula Mitropulu, Cronaca dei tre giorni, Palermo, Sellerio, 1976, 48 pp.

I Greci sono da sempre un popolo che ama la libertà. L'esempio più significativo è forse la resistenza contro i Persiani. Il sacrificio dei trecento alle Termopili o la vittoria degli Ateniesi nella piana di Maratona. Tuttavia la storia greca è costellata di atti di resistenza e di estremo coraggio. Estrema punta dei Balcani, la Grecia è stata da sempre baluardo della libertà. Democrazia e libertà sono concetti nati e avviluppati all'essenza greca.
I recenti fatti – legati alla grave crisi economica – hanno sicuramente gettato ulteriormente un'ombra sul popolo greco e sulla civiltà che ha dato i natali all'idea di Europa. Nel Novecento e all'inizio del terzo millennio, il popolo greco, i giovani di Atene, sono stati almeno tre volte protagonisti di una strenua e fiera resistenza alla barbarie, alla tirannide, alla speculazione e al capitalismo sfrenato. Non è un caso che questa strenua e fiera resistenza sia stata mossa in difesa della democrazia e della libertà.
Nel 1943 il popolo greco resistette all'occupazione nazi-fascista.
Nel 1973 i giovani studenti ateniesi resistettero alla dittatura e alla vigliacca azione dell'esercito. Nel novembre del 1973 fu occupato il Politecnico di Atene.
Dal 2010 i greci lottano contro la crisi finanziaria, contro l'Europa della povertà, contro le banche che vogliono tutto, che vogliono la fame di un popolo.

«Nella Cronaca dei tre giorni si sottolinea enfaticamente più volte il fatto che i giovani siano inermi. Eppure, in un mondo in cui i biechi oppressori sembrano dominare incontrastati, sono essi i più forti. Sono, anzi, i soli ad essere armati, come sono i soli ad essere al posto giusto. La loro condizione di reclusi all'interno della «loro» Scuola non scaturisce da una forzata prigionia, ma è frutto di libera scelta. In effetti sono loro i veri uomini liberi in mezzo a tanti schiavi, più o meno mascherati. Sono anch'essi «liberi assediati», come i loro avi di Missolungi che avevano ispirato l'omonimo poema al poeta nazionale della Grecia moderna Dionisio Solomòs. E come i liberi assediati di Missolungi, anch'essi credono in un mondo di giustizia e di libertà, dove non può esserci spazio per tiranni e militari golpisti. Sono essi i liberi assediati di tutti i tempi e di tutti i luoghi, sempre pronti al supremo sacrificio contro il nemico di sempre, contro il fascismo di ieri e di oggi». [Vincenzo Rotolo, Introduzione, in Kostula Mitropulu, Cronaca dei tre giorni, Palermo, Sellerio, 1976, pp. 10-11]

La Cronaca dei tre giorni è la narrazione «libera» di Kostula Mitropulu. Libera perché in quei giorni di novembre il Politecnico di Atene si trasformò in una sola grande voce che reclamava libertà. Voce che chiama nella notte: «Libertà!». Una radio, una musica, un canto, una voce. «Non è qualcuno dei ragazzi; non è qualcuno che soffre; non è paura o dolore o freddo. È semplicemente una voce nella notte. Una voce che piange. Notte e pianto» [p. 20].
La Cronaca dei tre giorni è un canto e i suoi versi risuonano nella notte, nelle porte e nei ricordi:
«Gas lacrimogeni piangono come
possono al fine che sopraggiunge.
I ragazzi cantano.
Alcune ombre si sono dissolte
nella notte. Altre sono entrate.
Al buio si sono unite con le voci
dei ragazzi. Sono diventate subito un canto.
Un canto ben definito.
I 1.050 chilocicli hanno perduto
la parola. La voce esce da un altro punto.
Un punto nella notte. Un punto
nel tempo. Questa voce dice con fermezza:
"Ragazzi, non lanciate nulla contro di loro.
Accoglieteli con la frase - Soldati fratelli nostri".
La notte è piena di questo voto.
La notte è un voto. La notte è la voce
del ragazzo che parla sui 1.050. chilocicli.
La notte è la frase ripetuta dall'emittente.
La notte è una tacita alleanza con i cannoni
immobili e con i volti chiusi. La notte è una
e una sola. Non ci sarà una seconda notte
o un'altra ancora o comunque una qualsivoglia
notte, per correggere tutto ciò che di errato
o di inopportuno è avvenuto stasera.
La notte è l'unico testimone che possa
essere considerato degno di fede» [pp. 21-22, 24, 25]

Sembrano versi quelli scritti prima e invece sono le parole cariche di Kostula Mitropulu, l'autrice dell'opera. L'intento non è di dare un racconto dettagliato di quello che furono quei giorni di novembre del 1973. Mancano i nomi, mancano le cifre, i luoghi precisi. In quest'opera, che in quei mesi del 1973 e del 1974 circolò anonima in tutta Europa, è narrato il gesto dei giovani Ateniesi e l'emozione che guidò la mano e che temprò la voce, il coro, il canto.
La maledizione delle pagine di Kostula Mitropulu è di non essere, purtroppo, il racconto, il mito, la tragedia di una generazione di giovani nati e cresciuti sotto la dittatura dei Colonnelli. Il canto di libertà e il racconto dell'oppressione è identico ovunque, non ha lingua e nazionalità. Il 1973 è anche l'anno di Santiago: l'11 settembre 1973 veniva abbattuta la democrazia in Cile e nell'ottobre di quello stesso anno moriva la libertà. La libertà era portata via dalla carovana della morte. Scomparirono migliaia e migliaia di uomini, che avevano perduto la libertà e volevano semplicemente riconquistarla. Sempre allora, qualche anno dopo, nel 1976, nella notte delle matite spezzate scomparivano migliaia di studenti argentini. Studenti argentini, cileni, cinesi, ungheresi o greci? Studenti. Studenti che cantavano di libertà, che volevano la libertà.
Il canto di libertà non ha barriere nazionali per questo esso è voce di tutte quelle piazze: Tien an Men, Fontana, Tahrir, Taksim, Plaza de Mayo. E il Politecnico di Atene è la scuola Diaz di Genova o la caserma di Bolzaneto.
E dov'è la Siria? Dove sono i morti di Damasco? Cantano, insieme agli studenti greci, la libertà. Sempre.


Lorenzo Cusimano



Tutti mi danno del bastardo

Nick Hornby, Tutti mi danno del bastardo, Parma, Guanda, 2013, 65 pp., ISBN 978-88-2350-618-3

Non dev’essere piacevole scoprire, un giorno, di essere il protagonista della seguitissima rubrica settimanale della tua ex-moglie dal chiaro titolo di “BASTARDO!” in cui i tuoi difetti matrimoniali sono esposti al pubblico ludibrio. È questo lo spunto del breve racconto di Nick Hornby che, con il solito stile British, pungente e scorrevole, imbastisce una storia non banalissima sugli effetti della comunicazione e delle sue conseguenze devastanti sulla vita di chi si trova ad esserne investito.
Charlie, lo sfortunato protagonista del plot, non è un personaggio pubblico ma sua moglie sì, e sfrutta la sua maggiore fama e appeal per vincere la battaglia (a distanza e senza particolari contromisure da affrontare) con l’ex marito fedifrago. Tra sensi di colpa, risalite e crolli repentini, la storia di Charlie si dipana ad una velocità superiore alla media e alla fine scorre via in un’ora di lettura. Gli spunti più interessanti del libro vengono fuori dal confronto tra il protagonista e le donne (l’ex moglie, la madre e STRONZA!) con cui interagisce, ambito in cui Hornby assegna, da sempre, all’uomo il ruolo di anello debole della catena, a confronto con donne che sono sempre più volitive, mature e consapevoli degli uomini, giudizio che condivido e che, in parte, spiega la mia ammirazione per lo scrittore inglese.
Purtroppo però, nonostante ottime promesse e molte pagine divertenti, alla fine qualcosa non va. Pur facendo parte della nutrita schiera dei fan di Hornby, devo riconoscere che questo suo racconto non riesce nel mirabolante equilibrio di “È nata una star!” e senza un accompagnamento musicale di rilievo – fatto inusuale nella bibliografia di Hornby grande appassionato di POP – un finale che non lascia il segno e una storia che si risolve solo in parte e, inoltre, in modo prevedibile e un po’ banale, Tutti mi danno del bastardo raggiunge appena la sufficienza per la gradevolezza dello stile e la sottile ironia, ma onestamente 9 euro per un’ora di lettura spensierata mi paiono troppi.

Bartolo Megna



L'ombra del vento

Carlos Ruiz Zafón, L’ombra del vento, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2004, 439 pp. ISBN 88-04-52733-1.

Barcellona 1945, Daniel Sempere, protagonista del romanzo, viene portato dal padre al Cimitero dei Libri Dimenticati – antica e immensa libreria che raccoglie tutti i libri di cui nessuno ha più memoria – e da questi invitato a sceglierne uno. È qui che ha inizio la storia, Daniel sceglierà (o sarà il libro a scegliere lui?) L’Ombra del Vento, libro sconosciuto del più ancora sconosciuto autore Julian Carax, e da questo momento la vita di Daniel verrà sconvolta da una serie di eventi che lo cambieranno come ragazzo prima, e come uomo poi.
L’ombra del vento di Zafón ha rappresentato un piccolo caso editoriale: pubblicato nel 2001, inizialmente passato sotto traccia, ha visto crescere la sua notorietà grazie al passaparola dei lettori, che lo hanno portato ad essere uno dei libri più letti degli ultimi anni… ma viene da chiedersi perché? Magari avevano ragione i lettori nel 2001 ad ignorarlo; per carità il libro è ben scritto, i personaggi sono ben delineati, ma la storia non decolla mai, non ci sono mai spunti che ti fanno ritardare l’ora di cena di 20 minuti pur di continuare a leggere. Il romanzo si muove fra tanti generi (è romantico, è avventuroso, è giallo, è anche horror) ha tanti intrecci, tante sottotrame, ma spesso si perde nella banalità e nella prevedibilità (come ad esempio il parallelismo tra la vita di Daniel Sempere e quella di Julian Carax); pochi, pochissimi i veri sussulti coinvolgenti e nessun finale a sorpresa, tutto scorre al suo posto per come ci si immagina. Al romanzo fa da sfondo una Barcellona cupa e piovosa manco fosse Londra.
La sensazione che si ha alla fine è che tanto clamore attorno a certi libri derivi, più che altro, da una certa mania modaiola che nulla ha a che vedere con il valore intrinseco del prodotto libro.

Alberto Capizzi




La Casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, La Casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili, Milano, Rizzoli, 2007, 284 pp., ISBN 978-88-17-01714-5.

Nel nostro disgraziato Paese il tempo, invece di migliorare le cose, non fa altro che peggiorarle. Ripropongo, dunque, questo best-seller del 2007 in cui vengono denunciati, dati alla mano, tutti i buchi neri della politica italiana. Il libro riporta minuziosamente i costi e i privilegi della nostra classe politica e le conseguenze di essi sulla popolazione. Con chiarezza e obiettività Rizzo e Stella mettono nero su bianco i vizi di una classe dirigente sempre più avida e bramosa, poco propensa al bene comune e alla buona amministrazione e sempre più interessata ad arricchirsi a dismisura alle spalle dei cittadini.
Gli autori de La Casta sono due grandi giornalisti che, partendo da una minuziosa raccolta di numeri e dati, sono arrivati a formulare delle conclusioni sconvolgenti eppure difficilmente confutabili.
La narrazione obiettiva, ironica e accattivante, si concentra sulle vicende di sprechi e mala amministrazione: dalla politica locale – con le innumerevoli province inutili, la sanità allo sbando, le regioni autonome che costano più di un emirato – al contesto nazionale: impunità, leggi ad personam (ma spesso anche ad personas…) e fiumi di finanziamenti.
Il racconto di Stella e Rizzo sembra a volte surreale quasi impossibile, impensabile perché impensabile è anche la bassezza di certi fatti che difficilmente si addicono a una classe dirigente degna di questo nome. Un Paese che ha gli eurodeputati più pagati (anzi strapagati) d’Europa, ma anche i più assenteisti; un Paese che è passato da un Presidente della Repubblica, Enrico De Nicola[1], che rifiutò la propria indennità in un periodo, il dopoguerra, non proprio di vacche grasse, a consiglieri regionali le cui indennità possono competere con quelle dei governatori dei più ricchi Stati americani. Per non parlare di deputati e senatori nazionali: lì il conto dei vizi e dei privilegi è sempre maggiore, anno dopo anno.
Questo libro la classe dirigente italiana l’ha scritto da sola, con i suoi vizi, le sue malefatte, la sua immoralità. Un best-seller che ci invita ad aprire gli occhi su chi ci governa, sui modi in cui lo fa, a discapito dei suoi elettori.
La Casta – testimonianza di una classe dirigente da cambiare ma non da dimenticare, affinché non si continuino a ripetere gli stessi errori del passato – è il punto di partenza per una cocente e seria riflessione sulla necessità immediata di costruire una nuova classe dirigente pulita e trasparente.

Biagio Bertino




[1] M. Travaglio, Enrico De Nicola, il monarchico col paltò rivoltato, in «Il Fatto Quotidiano», 10 aprile 2013.