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domenica 5 gennaio 2014

Il «sogno» di Keplero

Il «sogno» di Keplero. La Terra vista dalla Luna in un racconto del grande astronomo tedesco, a cura di Anna Maria Lombardi, Milano, Sironi editore, 2009, 160 pp., (Galàpagos, 34), ISBN 978-88-518-0111-3.

La Luna, l’unico satellite naturale della Terra, è da sempre fonte di miti, sogni e credenze popolari.
L’affascinante disco notturno è stato anche, e soprattutto, oggetto di osservazioni astronomiche e fisiche, ed è questo il caso rappresentato da Il sogno di Keplero, breve composizione dell’astronomo, matematico e musicista tedesco, Kepler (27 dicembre 1571 – 15 novembre 1630), padre della scoperta delle leggi che regolano il movimento dei pianeti.
Il somnium si presenta come un breve racconto fantascientifico, anche se l’autore dichiara di volere convincere i sostenitori della teoria geocentrica dell’esatto contrario, e spingerli a credere, a seguito di alcune dimostrazioni, nell’opposta visione dell’Universo, che prevede la centralità del Sole ed il movimento di tutti gli altri Pianeti, Terra compresa, come enunciato da Copernico.
La componente fantastica è data dalla descrizione di una Luna abitata, il libro presenta una trama semplice, in cui è possibile riconoscere alcuni personaggi e situazioni della vita di Keplero, riscontri chiariti dalle note al testo, da lui stesso stilate ed aggiunte molto tempo dopo la prima stesura.
Protagonista è Duracoto, nato nella arretrata ed isolata terra di Islanda, la cui situazione familiare è riconducibile a quella dell’autore: privo del padre e con una figura materna – Filolxhilde, questo il nome della donna – costretta a lavorare per il mantenimento della casa e descritta come un soggetto strano e misterioso; nella realtà dei fatti il padre dell’astronomo era spesso fuori per lunghi periodi, mentre sulla madre aleggiavano sospetti di stregoneria, che le causò difatti tale accusa.
Duracoto va via di casa per andare a lavorare con l’astronomo Tycho Brahe, che figura come personaggio nell’economia del racconto, e di cui diviene apprendista.
Inizia così una meticolosa descrizione della Terra osservata dagli abitanti lunari, con la spiegazione di leggi, moti, rotazioni, eclissi e fenomeni astronomici, che accomunano la natura lunare a quella terrestre, e ciò a conferma della teoria copernicana.
Spesso il somnium viene giustificato come un vero e proprio sogno fatto da Keplero e messo su carta; fatto sta che la prima stesura, sotto forma di saggio, risale al 1593, quando era ancora uno studente all’Università di Tubinga.
Quando nel 1630 Keplero muore, il somnium, che aveva attraversato diverse stesure e perfezionamenti, risulta concluso e corredato dalle note, ma non ancora dato alle stampe; sarà uno dei figli, Ludovico, a portarne a termine la pubblicazione, dopo avere trovato un mecenate – la cui lettera dedicatoria è inserita nelle Appendici [pp. 141-151] al libro – quattro anni dopo la morte del padre.
Sogni e sfere astronomiche si intrecciano spesso nel repertorio della letteratura e dell’immaginario popolare, ed elementi comuni si trovano in scritti precedenti il somnium, e citati dallo stesso astronomo tedesco.
Il primo ad essere citato è il volto della Luna, opera di Plutarco, risalente al II secolo d. C.; anche qui si narra di un sogno, ed anche qui si prende in considerazione la possibilità che il satellite sia abitato, con uno stile che oscilla tra il trattato scientifico e il racconto letterario.
Il secondo testo citato è la Storia vera di Luciano di Samosata, che narra di quando la sua nave venne rapita da una tempesta e trasportata sulla luna, anche questo risalente al II secolo d. C.
Anche la scelta del sogno è stata spesso utilizzata nella tradizione letteraria: si pensi a Cicerone, Platone, Plutarco, fino ad arrivare al più recente Carrol.
Il sogno assume un valore sacrale, è veicolo di una conoscenza altra, sia essa più o meno attendibile, rispetto a quella terrena.
Con il sogno l’autore può affidarsi ad un messaggio ultraterreno, ad un daimon inconscio, che giustifica chi scrive, essendo egli solo un tramite per la trasmissione dei fatti.
34° titolo della collana Galàpagos della Sironi editore, Il sogno di Keplero è stato ben tradotto e ben curato da Anna Maria Lombardi, collaboratrice del Dipartimento di Fisica dell’Università degli Studi di Milano, dell’Osservatorio astronomico di Brera e del Civico Planetario di Milano. Anche l’impaginazione e la veste grafica contribuiscono alla ottima resa del volume.


Agostina Passantino



Scale neviere trazzere

Pippo Lo Cascio, Scale neviere trazzere. Le vie storiche di comunicazione, commerci ed economie della provincia palermitana, tra i secoli XIV-XIX, prefazione di Tommaso Romano. Palermo, ISSPE, 2012, 220 pp.

La ricerca documentaria può dare buoni frutti anche al di fuori dello stretto ambito universitario. A riprova di ciò è questo volume, una ricerca documentaria – condotta con cura da un ricercatore ‘indipendente’ – sulla topografia e sulla toponomastica della Sicilia storica. Per una Sicilia che sembra aver perso il suo rapporto con la Natura, la ricostruzione e il riconoscimento di luoghi oggi dimenticati o non più identificabili nella provincia palermitana è stata condotta presso archivi storici comunali, di Stato e diocesani, in più consultando fondi manoscritti di biblioteche, archivi amministrativi e giornali regionali e del Sud Italia (Termini Imerese, Palermo, Trapani, Salerno, Pescara, Monreale).
Lo Cascio ci porta all’approfondimento di tutta la struttura dei collegamenti viari a partire dalla fitta trama delle trazzere borboniche, spiegando le vie commerciali e i particolari veicoli impiegati, fra Trecento e Ottocento, anche scendendo nel dettaglio della terminologia locale o amministrativa. Particolare è l’approfondimento delle neviere, buche per la conservazione della neve che veniva rivenduta in estate. Una risorsa economica poco studiata, ma attorno alla quale si sviluppavano interessi anche consistenti, per un commercio che giungeva fino a Roma e Malta: nel libro sono presenti le trascrizioni di numerosi documenti che ne legiferavano o ne regolavano l’uso, oltre ad attestarne la forte presenza nella cultura popolare.
Dopo Prefazione, Ringraziamento ed Elenco abbreviazioni, il primo capitolo è La viabilità oltre la cortina montuosa della Conca d’Oro: il superamento dei Monti Billiemi, Cuccio e Grifone [pp. 11-72], dove si parla appunto di ‘scale’ e ‘portelle’, ma anche di ‘sedie volanti’, carrozze, muli e bardotti. Il secondo capitolo, Le neviere [pp. 73-120] approfondisce la forma e la localizzazione di queste strutture, anche approfondendo la tecnica e gli attrezzi con cui esse funzionavano. Il terzo capitolo, La memoria [pp. 121-150], è una raccolta di indovinelli e proverbi siciliani sulla neve, ricette di sorbetti, notizie sul culto della Madonna della Neve, e analisi dell’attuale stato di conservazione di scale, portelle e neviere nel territorio palermitano. Il quarto capitolo sono Le schede delle neviere della provincia palermitana [pp. 151-176], corredato da un glossario dedicato. In appendice, infine, I documenti [pp. 177-212] e la ricca Bibliografia [pp. 213- 220].
Consiglio questo libro non solo agli studiosi, perché copre una lacuna nello studio del territorio provinciale, ma anche ai semplici curiosi della storia locale, perché comunque molto scorrevole e di piacevole lettura.


Eloisia Tiziana Sparacino


Dono dell'autore

Puntu e a Capu. Poesie in lingua siciliana

Rita Elia, Puntu e a Capu. Poesie in lingua siciliana, Geraci Siculo (PA), Edizioni Arianna, 2010, 89 pp., ill.,  ISBN 978-88-8994350-2.

La poesia non ha lingua, non ha ideologia: segue soltanto le ragioni dell'interiorità dell'anima. Per parlare di poesia, e quindi anche dei componimenti di Rita Elia, bisogna, innanzitutto, scrollare queste pagine delle inutili catafratte del barocchismo, delle velleità e delle rivendicazioni culturali. Altrimenti si corre il rischio di celebrare il trionfo del "partito spagnuolo" siciliano.
La poesia non è mai provinciale, per questo motivo a nulla vale la lingua in cui essa è scritta. La poesia è racconto dell'universale e del possibile – ce lo dicono i filosofi – e l'anima è pronta a generare la poesia dall'aorgica potenza delle passioni e delle sofferenze che riempiono il cuore e che soltanto per una combinazione casuale si traduce in versi scritti, ed ancor più casuale è la lingua e l'espressione in cui essa si manifesta.
Poesia, per le ragioni dell'universale, è quindi emanazione del sacro, che permette al lettore di poter percorrere la strada per l'incontro con il divino. Solo il contatto con il sacro ci permette di leggere le poesie di Rita Elia. Non è casuale, infatti che i più bei componimenti, siano quelli rivolti alle Madonne, alle Madunnuzze e alle Sante. «Inchiodati dalle colpe e dagli errori», i lettori possono tuttavia ritrovare in questi versi, il ristoro della grazia e della poesia, la quale, pur comprendendo la natura ctonia dell'uomo, concede la possibilità della salvezza dell'anima, che è un percorso che inizia con una «valigia, una sola». Alla Madonna del mare sono infine rivolti la suprema preghiera e il verso rispettoso, affinché non sia lasciato alle asperità della Natura il vincolo terreno che lega all'uomo alla sua terra. Ed è per questo che la lettura di questa raccolta di poesie è come il ritorno del pescatore, è un peso che si allontana insieme alla malinconia.


Lorenzo Cusimano


Dono dell'autrice

Etica di un amore impuro

Alessandro Savona, Etica di un amore impuro, Palermo, Leima, 2013, 133 pp., ISBN 978-88-98395-02-6.

Quando qualcosa riesce male, come questo romanzo, si rimane ancora più delusi nel percepire nell'operazione troppa spocchia intellettuale, senso di superiorità e ambizione non accompagnata dalla giusta dose di umiltà e duro lavoro di cui ha bisogno la letteratura.
Non basta il fatto che ho letto il tuo libro e non mi è piaciuto, ci si dice, ma devi darti pure mille arie. Proprio no.
Questo libro mi ha dato – volendo fare un paragone azzardato – la stessa impressione di due film recenti: La Grande Bellezza di Sorrentino e La Mafia uccide solo d'estate di Pif. Opere nate con quarantamila pretese, che tra l’altro hanno ottimi contenuti e a volte pure idee geniali, ma che sono sviluppate artisticamente con i piedi, con fretta e pochissima cura, senza – appunto – l'umiltà e il duro lavoro necessari.
Etica di un amore impuro di Alessandro Savona è così. Pecca di presunzione.
E la sua cattiva qualità non si può giustificare con il fatto che si tratta di uno dei primi libri pubblicati da una nuova casa editrice come Edizioni Leima di Palermo. Che magari, con un lavoro di editing più accurato e un migliore indirizzamento da parte dei consulenti editoriali, poteva essere un buon libro. Questa non è una scusante. Una piccola casa editrice, anzi, per avere un futuro, dovrebbe innanzitutto puntare sulla qualità.
Dicevamo, non bastano le ottime premesse per fare un buon romanzo. Non bastano i riferimenti colti, l'attrattiva di uno scenario figo come la Parigi del Sessantotto, il personaggio suggestivo e affascinante di Roland Barthes, la smaliziatezza nel narrare amore e sesso omosessuale.
Tutti questi elementi, se il prodotto non è buono, sono anzi pecche ulteriori, cose che fanno storcere ancora di più il naso. Perché innescano il meccanismo sadico del lettore che, a un libro con queste pretese, non perdona nulla.
Da dove si vede che il libro ha troppe pretese?
Al di là dei contenuti di cui si è parlato prima, che sono già abbastanza impegnativi – una scommessa rischiosa – è proprio il tono (il registro) che è volutamente alto, olimpico, sentenzioso.
Come l'incipit: «Quali parole si scrivono per raccontare un amore? Per entrare nel sangue di una storia, penetrare il silenzio di una carezza, l'armonia di un'imperfezione?» [p. 9].
Oppure citazioni continue fin dall'inizio, come le parole molto suggestive di Barthes: «La calma di un tempo ha spalancato spesso la porta alla pornografia di una calunnia» [p. 33].
Wow!, ci si dice, uno che comincia così il suo romanzo, e che fin dalle prime pagine si spara Barthes, dovrà per forza aver fatto un capolavoro; dovranno succedere cose fortissime, in questo romanzo, e dovranno essere raccontate in modo meraviglioso, sublime, potente.
Dovrà essere così. Altrimenti mi arrabbio.
E invece.
Invece ecco che – ok! – c'è un certo Olivier che nel 1968 scappa per Parigi – bello! – e incontra ovviamente la contestazione – perfetto! – e fa le cose che facevano i giovani sessantottini a Parigi e poi – sorpresa! – conosce nientemeno che Roland Barhes, e addirittura se ne innamora, e perfino ci va a letto e per di più ne diventa l’amante pseudo-fisso e il confidente, e – siamo solo all'inizio – poi finisce a fare il gigolò, a fare sesso di gruppo, a fare roba sadomaso con tanti adulti pervertiti e annoiati – wow! – ma purtroppo non ci siamo, non ci siamo.
Troppo fumo negli occhi.
Tutto è raccontato veramente male, come di corsa, dando troppe cose per scontate.
La narrazione è ingolfata da troppo lirismo a buon mercato, troppo intellettualismo tronfio e presuntuoso.
Il lettore non “vede” niente. Le azioni sembrano un racconto di un racconto di un racconto, perse in mezzo a tutta questa smania per la frase ad effetto.
Poi, nella storia di Marco, studente di architettura dei giorni nostri, storia che si intreccia con quella di Olivier per tutto il romanzo fino all'incrocio finale, ecco, in questa storia si rasenta pericolosamente e ripetutamente il ridicolo.
Ed è soprattutto questo che non si perdona a un romanzo del genere: il ridicolo.
Perché tu scrittore non mi puoi parlare di Roland Barthes e ammorbarmi con tutte le tue citazioni colte, non puoi scrivere frasi come «Senza capirne il motivo, sentii improvviso il peso della mia fragilità» [p. 120] oppure «Decisi, malgrado la fame, di sedermi sulla balaustra e risvegliare la mia vena poetica nella contemplazione dell'irreale panorama che mi si svelava impudico» [p. 106], e poi venirmi a raccontare la storia del protagonista Marco che si lascia via essemmesse con la fidanzata Sonia, perché lui va a Parigi per una settimana per legittimissimi motivi di studio – cavolo, una settimana! – e dunque lei si infuria come una dodicenne con il suo fidanzatino.
Non puoi raccontarmi – seriamente – che lei non gli risponde al telefono mentre lui ogni giorno le manda mille essemesse sempre più disperati, fino a quando ci mette una pietra sopra con un liricissimo e amarissimo e struggentissimo essemmesse.
Tu scrittore pieno di pretese non puoi presentarmi questa situazione senza neppure una – si dice così? – giustificazione narrativa per quello che succede.
Senza niente, per intenderci, che giustifichi il comportamento di lei.
Qualcosa – che ne so – tipo che lei è malata terminale o iper-ansiosa o schizofrenica o più semplicemente – non si chiede troppo – stronza.
Niente di tutto questo.
Roba che anche il più scalcagnato insegnante di scrittura creativa, se scrivi una cosa del genere, ti si mette accanto – un po’ imbarazzato e un po’ paterno – e ti sussurra Guarda Che Così Non Va.
E poi che toni. Una vicenda da telefilm adolescenziale – e neanche! – scritta come se fosse tragedia greca.
Bisogna leggerle, certe cose.

“Devo dirti una cosa”, esordii.
“Cosa?”.
Era curiosa, avvolta da una nuvola di dolcezza.
“Il prof mi ha proposto di partire per una settimana”.
Le pupille nere le si strinsero in un'espressione interrogativa.
“Sarebbe dovuto andare lui, ma preferisce che lo faccia io (...)”.
“Io non posso partire con te. Mio padre mi ucciderebbe!” esclamò Sonia, angosciata.
“Lo so. E io non me la sento di rifiutare. Credimi è un peso. L'idea di allontanarmi da te è...”
“Quando partirai?”, domandò serissima.
“La prossima settimana. Ti prometto che ti chiamerò ogni giorno. (...)”.
Allungai una mano sulle sue dita che grattavano nervosamente il piano del tavolino. Tremava.
“La prossima settimana io e la mia famiglia ci trasferiremo in campagna. Là il cellulare non prende. Non credo che sarà facile sentirci per telefono”.
“Sonia, perché rendi tutto così difficile? Una settimana passa in fretta”.
“Un amore può finire in meno di un minuto”.
“Non farei nulla che possa danneggiare il nostro amore”.
“Ma io non parlavo di te”, mi trafisse. [p. 89]

E questo è solo un esempio. Il romanzo è puntellato di interi paragrafi di sconcertante banalità e comicità involontaria, tanto che non ci si capacita come mai non siano stati cassati – segnati in rosso, cancellati col bianchetto, stracciati via e buttati nel cestino – prima della pubblicazione.
Comunque sia, il problema di questo libro è principalmente la mancanza di umiltà, quella cosina che – in letteratura e nella narrazione in generale – genera mostri.
Perché il contenuto può essere meraviglioso, ma un romanzo è un romanzo, e la forma è praticamente tutto. Se si hanno i contenuti, ma non si ha la voglia (l'umiltà) di buttare sangue nei Sacri Campi della Forma, allora si possono scrivere pure saggi, cosa che spesso molti cattivi romanzieri – e magari buoni scrittori – dimenticano.


Nino Fricano



ITALO CALVINO - Lo scrittore dei destini incrociati (a cura di Tiziana Sparacino)

Il 15 ottobre 2013 Italo Calvino avrebbe compiuto novant’anni. Fu scrittore, giornalista, politico, autore di canzoni, traduttore e addetto stampa dell’Einaudi, ma soprattutto fu uomo d’ideali, nel senso più vero del termine.
Nasce a Cuba e sempre le rimane legato, tornandovi più volte e diventando amico di Che Guevara. Giunto in Italia a 13 anni, dopo una militanza partigiana, alla fine della seconda guerra mondiale si iscrive al Partito Comunista, impegnandosi in politica per spirito di servizio e di utilità alla società. Comincia allo stesso tempo a collaborare alla Einaudi, e inizia a frequentare intellettuali come Eugenio Scalfari, Elio Vittorini e Cesare Pavese, che divenne il suo mentore.
Le opere del periodo giovanile (Il sentiero dei nidi di ragno, 1946; Ultimo viene il corvo, 1949) risentono della corrente neorealistica che attraversa la cultura dell’Italia del secondo dopoguerra. Il teatro, il cinema, la letteratura fanno impietosamente i conti con la realtà di una società in macerie e Calvino, che ha pure combattuto in trincea, non può che raccontarla; mantiene però una sottesa leggerezza, quella capacità, come Pavese diceva, di «osservare la vita partigiana come una favola di bosco». Siamo ancora distanti dalle Favole Italiane o da Marcovaldo, ma l’approccio mitico-fantastico al mondo è uguale.
Già in queste prime opere la struttura narrativa si sviluppa su due piani: ad una lettura palese, dal senso aperto a tutti e spesso umoristico, si affianca quella sotterranea, dal senso morale critico, anche corrosivo; questa multilettura diverrà una costante della poetica calviniana.
La sua mente agnostica e razionale faticava a relazionarsi con una società che, per sofisticazione continua ed esponenziale, creava sostruzioni artificiali inutili. Nella trilogia de I nostri antenati parla di realtà umane conflittualmente contrapposte (Il Visconte dimezzato, 1952), di contestazione delle consuetudini sociali (Il Barone rampante, 1957), di dolorosa ricerca della propria identità (Il Cavaliere inesistente, 1959), sempre usando un tono allegorico-simbolico e una prosa dalla stesura classica e scorrevole.
La crisi dell’impegno ideologico, che coglie Calvino verso la fine degli anni ’50, e l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Armate Rossa, lo porta alla rottura con il PCI. Da questa disillusione nasce la stesura di un racconto amaro come La giornata di uno scrutatore (1963), che nelle intenzioni doveva far parte di un trilogia mai ultimata sulla crisi degli intellettuali.
Gli anni Sessanta sono un periodo particolare: «il mondo si è trasformato in un luogo astratto in cui la normale comunicazione fra gli esseriumani è stata sostituita da combinazioni, ipotesi e funzioni» (Giulio Ferroni). Si appassiona alle scienze e si trasferisce a Parigi, da dove, poi, inizia a girare il mondo, intensamente scrivendo e lavorando a progetti radiofonici, televisivi e cinematografici.
Quello che diviene base della scrittura – e dunque della realtà raccontata – è lo stesso gioco linguistico, ossia la struttura combinatoria palesemente esibita ne Il castello dei destini incrociati (1969) e Le città invisibili (1972). La realtà esiste solo perché raccontata, per mezzo dei tarocchi o delle parole, elementi interscambiabili e polivalenti: c’è molto del labirintismo di Borges in queste opere di Calvino.
La compiutezza del fantastico combinatorio è raggiunta da Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979): i dieci capitoli della storia sono altrettanti incipit di libri, esercizio di stile con i vari tipi di romanzo (post-)moderno, spaziando dalla neoavanguardia al neorealismo. Giovanni Casoli scriverà di come per Calvino la necessità di integrare questo testo con la propria vita sia una parabola della necessità dei rapporti umani ma anche dell’insufficienza intrinseca della letteratura.
Calvino muore per emorragia cerebrale nel 1985, alla vigilia della partenza per un ciclo di conferenze in America, per cui aveva scritto le Lezioni americane, poi edite postume.




Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo

Roberto Alajmo, Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo, Milano, Mondadori, 2004, 105 pp., ISBN 978-88-04-53481-8.

I palermitani sono conosciuti nel mondo per essere delle persone allegre, divertenti, spontanee, gradevoli, ospitali. Quando un turista percorre le vie del centro storico si rende subito conto di questa simpatia e disponibilità: egli è immerso in un mondo fantastico, dove colori, profumi, cultura e tradizione si mescolano fra loro, inebriando e rinfrancando la sua anima, tanto da farlo sentire a casa. Tra queste vie è sovente possibile incontrare personaggi “particolari” dal comportamento o dall’abbigliamento eccentrico, intenti a "imbandire" discussioni filosofiche con interlocutori inesistenti o concentrati a recitare poesie davanti ad una platea immaginaria: questi sono i cosiddetti “pazzi” (di quartiere), molte volte maltrattati e offesi dagli abitanti autoctoni, ma vera nota di colore in una società grigia, sempre più dominata dalla razionalità e dalla concretezza.
Roberto Alajmo in questo piccolo volume crea un vero e proprio repertorio di personalità “disturbate”, raccontandone in breve la singola storia che, in maniera diretta o indiretta, è venuto a conoscere. Il suo approccio non ha nulla di sarcastico o derisorio, ma la sua è una vera e propria indagine nel catalogo antropologico panormita. E quindi si leggeranno episodi a tratti divertenti con protagonisti più o meno noti ai palermitani: il signor Giordano, Paviglianiti, il signor Tirone, il conte Cappello, Muddichedda, e così via...
Caratteristica la struttura del testo, composto di brevi incisi (dalle 2 alle 30 righe), tutti con lo stesso incipit: “Uno era…”. Grazie a questa scelta il libro può essere letto non per forza seguendo un ordine prestabilito, ma spaziando liberamente dall’inizio alla fine.
Molte volte queste persone, come ho già detto, sono oggetto di scherno da parte di chi li conosce da molto tempo e li incontra giornalmente nel rione, forse per paura, per timore che la loro condizione di irrazionalità possa stravolgere o distruggere il castello di sabbia che ha loro imposto di costruirsi la società: «Trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica di tutte le vostre costruzioni» (dall'Enrico IV di Luigi Pirandello).


Vincenzo Bagnera



Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica

Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, introduzione di Tullio De Mauro, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 160, (Intersezioni, 371), ISBN 978-88-15-14942-8.

L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana e
 al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e
delle libertà fondamentali.
Essa deve promuovere la comprensione,
la tolleranza,
l’amicizia fra tutte le nazioni,
i gruppi razziali e religiosi.
(Dichiarazione universale dei diritti umani, 1948) [p. 31]

Questo libro è un ottimo strumento di consultazione in grado di offrire validi argomenti da contrapporre ai fautori della cosiddetta «scelta anticlassica»[p. 10]. Sempre più diffusa in tutto il mondo è ormai l’idea che le materie umanistiche siano non solo obsolete, ma assolutamente inutili alla crescita del prodotto interno lordo di un Paese.
È ovvio che chi pensa che la scuola abbia come finalità solo ed esclusivamente la crescita economica, sarà pienamente soddisfatto dalla visione – riproposta anche nel nostro Paese qualche annetto fa – delle tre i (informatica, impresa e inglese). Ma il ruolo della scuola non può esaurirsi al solo obiettivo dell’aumento della produttività del Paese. La scuola ha un compito molto più importante e complesso: deve formare cittadini consapevoli e capaci di vivere in democrazia.
Nella sua prefazione al testo della Nussbaum, De Mauro ci ricorda come l’inglese – la lingua internazionale per eccellenza – sia costituito per il 70% dal latino classico e medievale, mentre solo per il 10% dall’antico fondo germanico. Il passato è quindi molto più importante di quanto alcuni pensano e, conoscere le nostre origini, è imprescindibile per capire che tipo di cittadini vogliamo essere e quale contributo saremo in grado di dare alla società.
È per questo che in alcuni paesi non occidentali le lingue antiche rivestono un ruolo fondamentale nella società. È così per l’antico giapponese o per il cinese classico, solo per fare alcuni esempi. Esistono quindi delle realtà nelle quali, per fortuna, «non bastano l’istruzione tecnica o la sola istruzione scientifica» [p. 14].
Alla luce di questa premessa, tanto più in un periodo di forte crisi economica come quello che stiamo drammaticamente vivendo in questo momento, Nussbaum ci esorta a riflettere su un’altra crisi – tanto tragica quanto importante, ma forse meno sentita – la crisi mondiale dell’istruzione.
Dinanzi alla logica del profitto – che ha determinato la crisi economica di cui siamo attualmente vittime più o meno inconsapevoli – viene meno la democrazia. In uno scenario come questo, i cittadini sono destinati a scomparire per cedere il posto a vere e proprie macchine alle quali a poco o a nulla sono utili gli studi umanistici. Questi, infatti, non servono a garantire profitto a breve termine. Dunque, dappertutto nel mondo, tanto in America quanto in Europa e in India, sembra che l’interesse sempre più ricorrente riguardi l’istruzione tecnologica e scientifica con una sempre più rilevante attenzione verso ciò che Tagore chiamava «il rivestimento» materiale dell’essere umano. Eppure, come dimostrerà Nussbaum nella sua opera, senza anima e pensiero critico non può esserci democrazia né, tantomeno, crescita economica. Anzi, proprio la dicotomia che negli anni si è venuta a creare tra «istruzione per il profitto» e «istruzione per la democrazia», non ha ragione di esistere. 
Ma cos’è veramente il progresso per una nazione? Per molti oggi la nozione di progresso è strettamente connessa all’incremento del Prodotto Interno Lordo e ciò a prescindere realmente dal livello di squilibrio e di diseguaglianza sociale della nazione. Infatti, ci dice l’autrice, il problema del paradigma di sviluppo basato sull’aumento del Pnl pro capite è che «trascura la distribuzione e questo diventa allarmante per quei paesi che già sperimentano situazioni di forte disparità»[p. 37].
È ovvio che le materie umanistiche creano sapere critico e che in molte realtà – una fra le tante Guajarat in India, dove i contadini poveri non hanno mai ricevuto un’istruzione adeguata – si preferisce scoraggiare questo tipo di istruzione in quanto ostacolerebbe pericolosamente la formazione di lavoratori obbedienti e senza grosse pretese nè rivendicazioni di alcun genere.
La dicotomia tra formazione per il profitto e formazione per la democrazia è, del resto, lo specchio della società contemporanea scissa, oggi più che mai, tra «persone preparate a vivere con gli altri in termini di rispetto e reciprocità e persone che perseguono il beneficio della prevaricazione» [p. 46].
 Partendo dal principio che non può esistere democrazia senza pensiero critico dei cittadini, la figura di Socrate, secondo Nussbaum, acquista un rilievo importantissimo nell’educazione umanistica ma viene anche ostacolata dal mondo del profitto e ciò proprio perché le persone che sanno riflettere sono anche meno influenzabili. L’incapacità di ragionare con la propria testa porta l’individuo a sottomettersi con una certa facilità alle sirene del potere e dell’autorità in modo assolutamente acritico, per quanto ciò che viene proposto possa essere abietto. Per Socrate non conta affatto lo status dell’oratore bensì la qualità del suo ragionamento [p. 68]. Pertanto è ovvio che non esiste, nell’ambito della discussione, un dislivello: tutti sono uguali al momento della discussione, indipendentemente dalla loro appartenenza sociale.  
È dunque indispensabile, alla luce di questo ragionamento, impegnarsi in modo tale che quegli aspetti dell’istruzione che servono a mantenere in vita la democrazia, possano essere rafforzati e incentivati: lo studio della storia delle minoranze o degli immigrati ad esempio, ma anche dei rapporti razziali, delle dinamiche di genere e delle lotte di nuovi gruppi per il riconoscimento e la parità [p. 136] sembrano oggi di un’attualità cocente, specialmente per far fronte ai conflitti sociali e religiosi e ai problemi legati al terrorismo e alla sicurezza delle nostre metropoli.
Per questa ragione non immune da critiche è, per la Nussbaum, il sistema di valutazione basato sui test: secondo la studiosa, infatti, «la riflessione critica e l’immaginazione simpatetica non sono valutabili tramite esami a scelta multipla» [p. 146]. Purtroppo questo sistema, molto diffuso negli Stati Uniti, è diventato molto comune anche nelle scuole italiane con le odiose prove Invalsi.
Sappiamo perfettamente come i fondi destinati alla ricerca umanistica e, più in generale, al patrimonio storico-culturale siano sempre più esigui, eppure, per migliorare la situazione in cui versano le materie umanistiche nel mondo, ci vorrebbe innanzitutto un «investimento umano» [p. 152]. Non servono soltanto i soldi perché si tratta innanzitutto di una questione culturale. Un’educazione scolastica o universitaria senza alcun riguardo per l’aspetto critico e l’esclusiva attenzione nei confronti delle materie tecniche e scientifiche sono ciò che Tagore definiva un «suicidio dell’anima» [p. 153]. Il vero dramma è che da questo suicidio nascono dittature e genocidi che minacciano la vita stessa della democrazia.
Se le lettere e le arti non servono a produrre denaro, sono imprescindibili invece a costruire un mondo «degno di essere vissuto» in cui gli esseri umani hanno imparato a rispettarsi a prescindere dalle diversità o, forse, proprio grazie a quelle diversità.
Consiglio la lettura di questo brillante saggio a tutti e, specialmente, a quanti nel nostro Paese sono chiamati ad occuparsi di educazione, istruzione e cultura in ambito istituzionale. Chissà che le loro scelte non ne vengano positivamente condizionate.


Alessandra Mangano



Il giorno prima della felicità

Erri DE LUCA, Il giorno prima della felicità, Milano, Feltrinelli, 2009, 135 pp. ISBN 978-88-07-01773-5

Sono cose che capitano il giorno prima.
Il giorno prima di che?
Il giorno prima della felicità. [p. 73]

Napoli, anni '50: la seconda guerra mondiale ha lasciato la città distrutta ma viva, una città che rinasce e comincia a rialzarsi; qui si muove lo Smilzo, protagonista del libro, che cresce insieme alla sua città. Lo Smilzo è un ragazzo vispo, sveglio, orfano, animato da una voglia incredibile di sapere e apprendere; inizia a imparare la vita grazie a Don Gaetano, il portiere di uno stabile, che lo adotta e lo nutre di storie e racconti e dei ricordi della guerra appena finita. Anche Don Gaetano è orfano, e ha il potere di sentire i pensieri delle persone (i pensieri che sfuggono dalla testa delle persone distratte). E lo Smilzo cresce, cresce all’ombra di una città piena di storie e personaggi, ama la scuola, prende il vizio del leggere, grazie a don Raimondo, un libraio di cui diventa amico che gli presta i libri che lo Smilzo divora letteralmente, e poi ci sono i racconti di Don Gaetano grazie ai quali conoscerà la vita, il dolore e l’amore; l’amore vero che lo Smilzo prova è quello nei confronti di una bimba di cui si innamora quando, anche lui bambino, gioca a pallone con i compagni, e che poi ritroverà quando saranno entrambi grandi; ma è amore impossibile, la ragazza è ormai la fidanzata del Guappo. E sarà la causa della sua fuga da Napoli.
Il giorno prima della felicità può considerarsi un romanzo di formazione, un romanzo che vede il protagonista attraversare la fase dell’adolescenza, della maturazione, fino a quando diventa uomo. Il giorno prima della felicità è proprio il giorno in cui nulla sarà più come prima, in cui si diventa adulti e che cambia per sempre la vita di ciascuno di noi.
Romanzo denso, emozionante, coinvolgente, lineare ma mai banale, in pieno stile De Luca.


Alberto Capizzi



Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia

Giuseppe Rizzo, Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, Milano, Feltrinelli, 2013, 272 pp., ISBN 9788807019449.

Pirandello fa cacare, dice Gaga. Tomasi di Lampedusa fa cacare.
E Camilleri, anche Camilleri fa cacare?, chiede l’americano.
Camilleri è il male assoluto. Dovrebbero imprigionarlo e rileggergli tutti i romanzi di Montalbano fino a che non implori pietà. Bisognerebbe mettere mano alla pistola ogni volta che qualcuno dice della splendida decadenza e dell’irredimibilità di questo posto, come fanno Camilleri Pirandello Tomasi. Bisognerebbe appiccare il fuoco, incendiare tutto, cambiare i connotati toponomastici e geografici di quest’isola, togliere ogni punto di riferimento agli isolani e al resto del mondo. Bisognerebbe, ecco, bisognerebbe che qualcuno si decidesse a scrivere un piccolo manuale per organizzare una guerra lampo, radere al suolo la Sicilia e resettare la mente di quelli un po’ cretini come te. Senza offesa, tesoro, era solo un esempio [p. 19].
Ma quando mai la Sicilia e l'Italia hanno conosciuto la dissacrazione vera, liberatoria? Nati in una terra di Chiesa, Chiese, dogmatismo e fanatismo, di pubbliche verità e dubbi privati, di integrità esibita e dissolutezza sotto il tappeto, gonfi di ipocrisia sottopelle ma fedeli al dogma «è sempre meglio non sputtanare il potente», davvero non conosciamo la potenza della dissacrazione. E invece Giuseppe Rizzo, scrittore agrigentino di 30 anni che vive e lavora a Roma, per l'immagine finale del suo romanzo Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, sceglie proprio questa formula, questa arma, questa energia.
Splendida, liberatoria, esplosiva è l'immagine finale del romanzo, con il mafioso legato e imbavagliato che penzola dalla pala eolica appena inaugurata, con il sindaco truffaldino che resta a bocca aperta subito dopo aver tolto il telo, e tutta la carovana in pompa magna al suo seguito che resta a bocca aperta, compreso l'imprenditore rozzo e ignorante che però è vicino alla politica e vicino alla mafia e tutti insieme fanno affari, distruggono il territorio come hanno sempre fatto, fanno un sacco di soldi come hanno sempre fatto, sfruttando e succhiando sangue a questa terra stremata, senza più futuro, nient’altro che una manica di parassiti. E, un po' più giù, il macchinone del mafioso sfregiato dalla scritta “Pidocchio”. Pidocchi, parassiti. Dire le cose come stanno, vedere sentire parlare, il sogno proibito di ogni – usiamo un termine abusato – “siciliano onesto”.
Un po' la stessa cosa, pensandoci, di una delle scene finali di Bastardi senza Gloria di Quentin Tarantino. Il corpo di Hitler inquadrato in primo piano, e una raffica di mitra che gli massacra la faccia, il collo e tutto il corpo. Una raffica, poi un’altra, poi un’altra ancora. Piombo infuocato a infierire sul corpo del dittatore. Vendetta. Sadismo. Violenza. Alla faccia del politicamente corretto. Praticamente, il sogno proibito di tutti gli ebrei.
Dissacrante e liberatorio è questo libro, un libro che ci voleva, splendido e necessario, che tutti dovrebbero leggere, che dovrebbe essere tradotto e fare il giro del mondo, per quanto è bello, profondo e scritto bene.
Ecco la trama. I trentenni Osso, Gaga e Pupetta, spiantati globalizzati smaliziati emigrati e precari a Roma, Praga e Berlino, tornano nel loro paesucolo disperato nell'entroterra disperato della disperata Sicilia, tornano per togliersi un po' di soddisfazioni. Scaricano quintali di merda davanti l'abitazione del sindaco, rovinano a suon di pernacchie la festa di paese con annesso tromboneggiante discorso del ministro, in un crescendo di risentita e divertita goliardia che diventerà presto gioco pericoloso che sfuggirà loro di mano e gli metterà contro i mafioselli del paese, costringendoli a fare i conti con la violenza e la prepotenza fatta sistema – la mafia, la politica, il potere, le collusioni, la paura, l'omertà, tutta la “palude” siciliana e italiana.
Stilisticamente, è un concentrato di intelligenza e sapienza narrativa, senza una – dico una – caduta di tono, senza neppure un minimo sfasamento di ritmo. Non c’è una frase banale, in questo libro, non si riesce a trovare niente che sia messo lì per pigrizia. Nessun riempitivo, nessun concetto trito, luogo comune. E poi è divertente da morire, si ride tanto, mentre si legge. Ed è anche e soprattutto un romanzo pieno di passione, di rabbia e di speranza, anche lì dove la speranza sembra impossibile.
E poi ha il dono dell'universalità, condizione necessaria perché ci sia grande letteratura. Parla infatti di paese e provincia, senza essere né localistico né provinciale. Ci sono i giovani e la Sicilia, infatti: la Sicilia da cui i giovani scappano, e i giovani che scappano dalla Sicilia. Ma c'è pure la nuova umanità tutta, senza stereotipi o cazzate giornalistiche. Mente, carne e sangue dei ragazzi e delle ragazze che affrontano quotidianamente l’effimero, la volatilità e la precarietà in tutti i campi dell’esistenza: denaro, lavoro, affetti, relazioni, orizzonti, futuro, senso dell’esistenza. Una generazione lontana anni luce dal mondo del propri genitori – non è un caso che nessuno dei protagonisti abbia un padre – un popolo anomalo che fa i conti ogni giorno con il cinismo quasi obbligatorio del postmoderno, la sua forzata assenza di sacralità e valori condivisi. Ragazzi e ragazze che, nonostante tutto, sono splendidamente vivi, traboccano di vita.
Chi ci riesce, di questi tempi, sinceramente e profondamente, senza pose o ipocrisia, e in più facendo ridere e piangere, e anche – quando ci vuole – provocando e indignando, a raccontare una cosa del genere?


Nino Fricano



Quando crollano i regimi

Quando crollano i regimi, a cura di Paolo Viola e Antonino Blando, Palermo, Palumbo, 2004, 200 pp., (Bibliotheca, 29), ISBN 88-8020-583-8.

Quando crollano i regimi è un importante libro che segue le diramazioni che la parola regime può assumere nel corso dei secoli, mutando contesti geografici e politico-sociali differenti. «Che cosa è un regime?
Perché alcuni paesi hanno o hanno avuto dei regimi cioè complessi politici-sociali-valoriali intesi come oppressivi, e non soltanto dei neutrali "sistemi politici"?
Da dove viene l'accezione negativa di una parola di per sé polisemica come quella di regime?
Perché un regime crolla, a quali condizioni, e chi sono i vinti e chi i vincitori?
Si può parlare di "uscita dai regimi" e non di "rivoluzione"?» [p. 7].
Paolo Viola e Antonino Blando, che curano questo libro, mettono insieme i contributi di diversi storici, che riguardano i quesiti sopracitati e che gli stessi curatori propongono nell'Introduzione.
La parola regime vuole dire in latino il governo della nave, per metonimia il timone. Vuole anche dire il comando in generale, da regere, mentre nel Medioevo indica la forma che la sovranità assume, ossia l'impianto istituzionale che gli uomini costruiscono per regolare il dono divino della potestas (dono scaturito da dio). Il regimen è artificiale, imposto dagli uomini e consolidato dal tempo e quindi non è la sostanza del comando politico [p. 7]. Essa viene analizzata e «imposta insieme» all'altra parola al centro della discussione: rivoluzione.
La dicotomia "regime-rivoluzione" viene sciolta: Regime ® violenza ® sistema costituzionale ® oppressivo totalitario / Rivoluzione ® violenza ® rovesciamento del sistema costituzionale ® oppressivo terrorista.
Con la Rivoluzione francese la parola «regime» assume una valenza politica per designare il vecchio mondo della monarchia assoluta, caratterizzato da un'«oppressiva rigidità». L'Antico regime non era però solo un insieme di ordinamenti, ma era una politica illegale, che negava i privilegi di una società fondata sui privilegi, ossia una cultura basata sull'ineguaglianza e sull'illegalità a sua volta, in cui è difficile discernere politica e società.
Dopo la Rivoluzione francese la parola «regime», invece, assume due significati: uno dotto, in uso delle scienze e delle dottrine politiche, che indica il complesso di governo, ma anche una società e un insieme di valori che presiedono al funzionamento delle relazioni di potere, un edificio coerente di istituzioni che regolano l'esercizio del comando, rapporti sociali compresa l'ideologia del comando che ne anima la vita; e uno corrente con un'accezione negativa, poiché indica un sistema politico sociale e valoriale oppressivo, che rifiuta la grande coppia di idee del 1789, cioè la libertà e l'uguaglianza.
Il libro si occupa in particolar modo di questo secondo significato, esaminando la valenza negativa del termine e le «risposte ai traumi inferti alla convivenza civile dagli apparati di potere oppressivi e dispotici» [p. 18].
L'uso dispregiativo del termine è particolarmente caratteristico dell'Italia, dove il fascismo ha rivendicato per sé di essere un "regime", per di più "totale" o "totalitario", che si connota per un «primato incontrastato della politica, capace di sovvertire la legge, controllare interamente la sera del sociale e anche del privato, nonché l'organizzazione del consenso attraverso gli strumenti di governo [...] i caratteri che definiscono i regimi totalitario: l'inesorabile macchina di controllo della società e delle coscienze, il partito unico, l'invadenza esclusiva dell'apparato politico nella vita privata dei cittadini, la trasformazione di ognuno in un ingranaggio del regime» [p. 9].
Anche l'imperialismo capitalista è assimilabile a un regime.
I regimi cadono di morte violenta (rivoluzioni e guerre), ma anche per interne crisi politiche (implosione) che prendono il nome di «transizioni». Le cause principali del crollo dei regimi sono: l'eccessiva rigidità, la fragilità interna e le pressioni internazionali. In ogni caso un regime oppressivo lascia enormi problemi aperti.
Dopo il crollo dell'Unione Sovietica sembra proprio che la dicotomia «regime-rivoluzione» viene a rompersi per una «mancanza di spazio per la rivoluzione in un mondo 'unipolare' [...] [e poiché] ogni modello di rivoluzione è destinato a disintegrarsi sotto l'incedere dei diversi punti di vista, delle molteplici esperienze, dalle singole storie di vita, ognuna delle quali dà forma ad una narrazione diversa degli avvenimenti in corso» [p. 18].
Il libro si compone di otto saggi:
Paolo Viola e Antonino Blando, Introduzione, [pp. 7-24]; Paolo Viola, Via dagli antichi regimi. La Francia e le Due Sicilie, [pp. 25-44]; Xabier Itçaina, Stato, Chiesa e territori. La transizione democratica spagnola, [pp. 45-67]; Tania Groppi, La riconciliazione attraverso il diritto: il Sudafrica dall'apartheid alla democrazia, [pp. 69-92]; Antonino Blando, Italia 1992-93: la retorica del regime, [pp. 93-116]; Hervé Rayner, Tangentopoli e il crollo della "prima repubblica", [pp. 117-144]; Paolo Viola, Fuori da un regime mafioso? Un'intervista a Leoluca Orlando, [pp. 145-156]; Michele Perottino, Fine di regimi e fuoriuscite "post-comuniste": l'Europa centrale, [pp. 157-179]; Marco Buttino, Dopo la fine del regime sovietico: il caso uzbeco, [pp. 181-200].


Piero Canale