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domenica 5 gennaio 2014

Etica di un amore impuro

Alessandro Savona, Etica di un amore impuro, Palermo, Leima, 2013, 133 pp., ISBN 978-88-98395-02-6.

Quando qualcosa riesce male, come questo romanzo, si rimane ancora più delusi nel percepire nell'operazione troppa spocchia intellettuale, senso di superiorità e ambizione non accompagnata dalla giusta dose di umiltà e duro lavoro di cui ha bisogno la letteratura.
Non basta il fatto che ho letto il tuo libro e non mi è piaciuto, ci si dice, ma devi darti pure mille arie. Proprio no.
Questo libro mi ha dato – volendo fare un paragone azzardato – la stessa impressione di due film recenti: La Grande Bellezza di Sorrentino e La Mafia uccide solo d'estate di Pif. Opere nate con quarantamila pretese, che tra l’altro hanno ottimi contenuti e a volte pure idee geniali, ma che sono sviluppate artisticamente con i piedi, con fretta e pochissima cura, senza – appunto – l'umiltà e il duro lavoro necessari.
Etica di un amore impuro di Alessandro Savona è così. Pecca di presunzione.
E la sua cattiva qualità non si può giustificare con il fatto che si tratta di uno dei primi libri pubblicati da una nuova casa editrice come Edizioni Leima di Palermo. Che magari, con un lavoro di editing più accurato e un migliore indirizzamento da parte dei consulenti editoriali, poteva essere un buon libro. Questa non è una scusante. Una piccola casa editrice, anzi, per avere un futuro, dovrebbe innanzitutto puntare sulla qualità.
Dicevamo, non bastano le ottime premesse per fare un buon romanzo. Non bastano i riferimenti colti, l'attrattiva di uno scenario figo come la Parigi del Sessantotto, il personaggio suggestivo e affascinante di Roland Barthes, la smaliziatezza nel narrare amore e sesso omosessuale.
Tutti questi elementi, se il prodotto non è buono, sono anzi pecche ulteriori, cose che fanno storcere ancora di più il naso. Perché innescano il meccanismo sadico del lettore che, a un libro con queste pretese, non perdona nulla.
Da dove si vede che il libro ha troppe pretese?
Al di là dei contenuti di cui si è parlato prima, che sono già abbastanza impegnativi – una scommessa rischiosa – è proprio il tono (il registro) che è volutamente alto, olimpico, sentenzioso.
Come l'incipit: «Quali parole si scrivono per raccontare un amore? Per entrare nel sangue di una storia, penetrare il silenzio di una carezza, l'armonia di un'imperfezione?» [p. 9].
Oppure citazioni continue fin dall'inizio, come le parole molto suggestive di Barthes: «La calma di un tempo ha spalancato spesso la porta alla pornografia di una calunnia» [p. 33].
Wow!, ci si dice, uno che comincia così il suo romanzo, e che fin dalle prime pagine si spara Barthes, dovrà per forza aver fatto un capolavoro; dovranno succedere cose fortissime, in questo romanzo, e dovranno essere raccontate in modo meraviglioso, sublime, potente.
Dovrà essere così. Altrimenti mi arrabbio.
E invece.
Invece ecco che – ok! – c'è un certo Olivier che nel 1968 scappa per Parigi – bello! – e incontra ovviamente la contestazione – perfetto! – e fa le cose che facevano i giovani sessantottini a Parigi e poi – sorpresa! – conosce nientemeno che Roland Barhes, e addirittura se ne innamora, e perfino ci va a letto e per di più ne diventa l’amante pseudo-fisso e il confidente, e – siamo solo all'inizio – poi finisce a fare il gigolò, a fare sesso di gruppo, a fare roba sadomaso con tanti adulti pervertiti e annoiati – wow! – ma purtroppo non ci siamo, non ci siamo.
Troppo fumo negli occhi.
Tutto è raccontato veramente male, come di corsa, dando troppe cose per scontate.
La narrazione è ingolfata da troppo lirismo a buon mercato, troppo intellettualismo tronfio e presuntuoso.
Il lettore non “vede” niente. Le azioni sembrano un racconto di un racconto di un racconto, perse in mezzo a tutta questa smania per la frase ad effetto.
Poi, nella storia di Marco, studente di architettura dei giorni nostri, storia che si intreccia con quella di Olivier per tutto il romanzo fino all'incrocio finale, ecco, in questa storia si rasenta pericolosamente e ripetutamente il ridicolo.
Ed è soprattutto questo che non si perdona a un romanzo del genere: il ridicolo.
Perché tu scrittore non mi puoi parlare di Roland Barthes e ammorbarmi con tutte le tue citazioni colte, non puoi scrivere frasi come «Senza capirne il motivo, sentii improvviso il peso della mia fragilità» [p. 120] oppure «Decisi, malgrado la fame, di sedermi sulla balaustra e risvegliare la mia vena poetica nella contemplazione dell'irreale panorama che mi si svelava impudico» [p. 106], e poi venirmi a raccontare la storia del protagonista Marco che si lascia via essemmesse con la fidanzata Sonia, perché lui va a Parigi per una settimana per legittimissimi motivi di studio – cavolo, una settimana! – e dunque lei si infuria come una dodicenne con il suo fidanzatino.
Non puoi raccontarmi – seriamente – che lei non gli risponde al telefono mentre lui ogni giorno le manda mille essemesse sempre più disperati, fino a quando ci mette una pietra sopra con un liricissimo e amarissimo e struggentissimo essemmesse.
Tu scrittore pieno di pretese non puoi presentarmi questa situazione senza neppure una – si dice così? – giustificazione narrativa per quello che succede.
Senza niente, per intenderci, che giustifichi il comportamento di lei.
Qualcosa – che ne so – tipo che lei è malata terminale o iper-ansiosa o schizofrenica o più semplicemente – non si chiede troppo – stronza.
Niente di tutto questo.
Roba che anche il più scalcagnato insegnante di scrittura creativa, se scrivi una cosa del genere, ti si mette accanto – un po’ imbarazzato e un po’ paterno – e ti sussurra Guarda Che Così Non Va.
E poi che toni. Una vicenda da telefilm adolescenziale – e neanche! – scritta come se fosse tragedia greca.
Bisogna leggerle, certe cose.

“Devo dirti una cosa”, esordii.
“Cosa?”.
Era curiosa, avvolta da una nuvola di dolcezza.
“Il prof mi ha proposto di partire per una settimana”.
Le pupille nere le si strinsero in un'espressione interrogativa.
“Sarebbe dovuto andare lui, ma preferisce che lo faccia io (...)”.
“Io non posso partire con te. Mio padre mi ucciderebbe!” esclamò Sonia, angosciata.
“Lo so. E io non me la sento di rifiutare. Credimi è un peso. L'idea di allontanarmi da te è...”
“Quando partirai?”, domandò serissima.
“La prossima settimana. Ti prometto che ti chiamerò ogni giorno. (...)”.
Allungai una mano sulle sue dita che grattavano nervosamente il piano del tavolino. Tremava.
“La prossima settimana io e la mia famiglia ci trasferiremo in campagna. Là il cellulare non prende. Non credo che sarà facile sentirci per telefono”.
“Sonia, perché rendi tutto così difficile? Una settimana passa in fretta”.
“Un amore può finire in meno di un minuto”.
“Non farei nulla che possa danneggiare il nostro amore”.
“Ma io non parlavo di te”, mi trafisse. [p. 89]

E questo è solo un esempio. Il romanzo è puntellato di interi paragrafi di sconcertante banalità e comicità involontaria, tanto che non ci si capacita come mai non siano stati cassati – segnati in rosso, cancellati col bianchetto, stracciati via e buttati nel cestino – prima della pubblicazione.
Comunque sia, il problema di questo libro è principalmente la mancanza di umiltà, quella cosina che – in letteratura e nella narrazione in generale – genera mostri.
Perché il contenuto può essere meraviglioso, ma un romanzo è un romanzo, e la forma è praticamente tutto. Se si hanno i contenuti, ma non si ha la voglia (l'umiltà) di buttare sangue nei Sacri Campi della Forma, allora si possono scrivere pure saggi, cosa che spesso molti cattivi romanzieri – e magari buoni scrittori – dimenticano.


Nino Fricano



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